IL PROBLEMA E’ LA CADUTA

Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: “Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene.” Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio

Con la citazione sopra si apre e si chiude L’Odio (1995), il mastodontico film di Mathieu Kassovitz, da poco tornato in sala. Questo evento potrebbe sembrare l’ennesimo ingranaggio del Macchinario Nostalgia, ma in questo caso, invece, è solo la dimostrazione che, a distanza di trent’anni, nulla è cambiato: “La Haine” è più attuale che mai, “l’odio chiama odio”.

Partiamo dall’inizio: sono gli anni ‘90, la polizia è più violenta che mai e la capitale della Francia è spaccata in classi sociali dove gli ultimi sono abbandonati a sé stessi. Il film parte da un fatto reale: la morte nel 1993, negli uffici della polizia, dello zairese Makomé M’ Bowole e i successivi scontri nelle periferie. Noi questa rabbia la vediamo a schermo, seguendo il racconto di una giornata nelle Banlieue parigine, attraverso le vicende di tre amici: Vinz, Hubert e Said. Nonostante sia un solo giorno quello messo in scena da Kassovitz, basta e avanza a presentarci il degrado e l’abbandono, ma anche una moltitudine di personaggi che cerca di ricavare uno spazio in un mondo che li rigetta.

Il vero merito de “L’Odio” però è che, come la Parigi che racconta, è un melting pot di culture. In esso c’è Charles Dickens, che descrive gli slums, le baraccopoli londinesi, come giungle per la condizione di vita in cui le persone riversano. C’è l’influenza dei giovani turchi, Godard in primis, che il cinema lo hanno amato e per questo lo hanno distrutto, destrutturato e citato. Ci sono Scorsese e Cimino, simbolo di quella classe registica che ha saputo raccontare l’alienazione e il tentativo di sconfiggerla.

Il simbolo della condensazione di tutte queste influenze è la scena in cui dj Killer, affacciato al balcone, fa sentire al quartiere un mix di canzoni: “Je ne regrette rien”, cantato da Édith Piaf, “Sound of da police” di KRS One e “Nique la police” degli NTM.

Kassovitz però non si limita a citare, a lasciarsi influenzare,ma ci porta in questo movimento endoscopico nelle banlieue parigine, nel disagio e nella voglia di uscire da un destino già segnato. I tre protagonisti sono naturalizzati francesi solo sulla carta: loro non si possono integrare in un mondo che li rigetta come un organo trapiantato male. Il personaggio principale però è la pistola. Entra in scena a parole, anticipata e introdotta dalla fama che la precede, come Rick in Casablanca. Il problema è che, come diceva Cechov, se una pistola appare in scena, questa prima o poi sparerà e a noi non rimane che aspettare di capire quando. La storia è già scritta, il finale lo sappiamo da subito e spesso viene ribadito. Tutte le storie raccontate dai personaggi invece sono vuote, non hanno una fine; spesso i personaggi stessi dicono che non c’è niente dopo. E non c’è niente neanche dopo “L’odio”, perché Kassovitz lo sa, non sarà la morale a salvare Parigi, tantomeno salverà il mondo, e quello che rimane altro non è che un ritratto amaro della realtà.

Arriviamo a noi: la frase in apertura è la rappresentazione della società al collasso, l’atterraggio invece la manifestazione concreta di esso. Quando Kassovitz gira, il collasso è avvenuto, la Francia brucia e ormai ci si può solo rannicchiare su sé stessi e prepararsi all’impatto.

Negli ultimi anni si sono riproposte dinamiche già viste: abusi di potere, dinamiche di prevaricazione e malcontento popolare. Non a caso, nel momento in cui scrivo questo articolo, la Francia ha appena sciolto le camere, l’estrema destra sta vincendo ovunque e portatori di odio e vecchie effigi nostalgiche stanno ottenendo potere. Che forse sia necessario preoccuparsi della caduta?

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