Avete presente il momento in cui arriva l’ispirazione? Quel frangente in cui stavate pensando ad altro, ma un’idea vi sobbalza alla mente come un fulmine a ciel sereno?
Ecco, bene, lo spunto per questo articolo è giunto esattamente così.
Ho aperto Google Documenti, ho selezionato un nuovo file e poi davanti a me si è aperta la fatidica pagina bianca rinominata “Untitled document”.
Da lì in poi la mia mente ha iniziato ad interrogarsi sul “non titolo”.
Fin da bambini ci viene insegnato a dare un nome alla realtà e cresciamo racchiudendo il mondo nelle parole per indirizzare e guidare la nostra attenzione verso uno specifico significato. Anche l’arte, specie quella degli albori dove si preferiva riprodurre la realtà piuttosto che reinterpretarla, ha assegnato al titolo un ruolo di primo piano. Tanto quanto lo stile e la tecnica, il titolo è stato fino alla soglia del XX secolo una didascalia che aveva il compito, un po’ come la cornice per un quadro, di racchiudere il significato ultimo dell’opera.
Con l’avvento dell’Impressionismo, ma ancor di più con le avanguardie novecentesche, il titolo non è più solo un elemento accessorio che serve per avere una visione a tutto tondo, bensì esso diviene una chiave interpretativa dell’opera.
La produzione artistica di inizio Novecento indaga l’uomo, la sua interiorità e decide di abbandonare la via mimetica per intraprendere un nuovo corso dove è necessario andare oltre al limite del visibile e allo spettro del reale.
Per questo motivo il titolo perde il suo valore univoco e diviene parte dell’opera nel momento in cui ne suggerisce un’interpretazione che deve essere colta dallo spettatore secondo la propria sensibilità. Il binomio immagine e parola ha quindi un esito dai risvolti imprevedibili e d’altronde lo insegna uno dei maestri del Surrealismo: René Magritte. Quest’ultimo, infatti, si avvaleva di un gioco quasi psicanalitico per assegnare il nome ai suoi quadri.
L’artista chiedeva alla sua cerchia di amici di trascrivere su dei foglietti il primo pensiero che avevano avuto in merito ad un determinato quadro, tramite il metodo delle associazioni libere, e poi si estraeva il titolo più adatto, nonché solitamente quello meno pronosticabile.
La tappa successiva è quella del “non titolo”. In questo caso l’assenza di un nome correlato ad un’opera può simboleggiare il fatto che non vi sia nessun messaggio da veicolare, se non quello visivo, oppure sottolinea la necessità di un intervento dello spettatore che, basandosi sulla propria esperienza e sensibilità, può rinominare la composizione artistica senza subire nessun condizionamento.
La nascita del “Senza Titolo”
Vasilij Kandinskij, Senza Titolo
(primo acquerello astratto) – 1910
Il 1910 è l’anno di esordio dell’Astrattismo, avanguardia che propose un nuovo modo di vedere, ma soprattutto di intendere l’arte.
La mancanza di un titolo ci fa ben comprendere come tutti noi possiamo esser colpiti in maniera differente da questo insieme di macchie colorate, linee e forme irregolari.
Vasilij Kandinskij, genio a 360° nonché musicista, in questo acquarello volle sintetizzare le emozioni attraverso un rinnovamento del linguaggio artistico.
Ad ogni sfumatura cromatica corrisponde un preciso stato d’animo ed è proprio grazie ad uno studio basato sul colore e sull’influsso che ha sulla nostra interiorità che si può tentare di comprendere il messaggio di alcune opere astratte.
In generale il colore è un mezzo per influenzare direttamente un’anima. Il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima.
– V. Kandinskij
La fede nell’arte

Barbara Kruger, Senza titolo (Investi nella divinità del capolavoro) – 1982
L’esempio più emblematico di titolo didascalico è quello della “Creazione di Adamo”, opera di Michelangelo Buonarroti presso la Cappella Sistina. In questo caso non si tratta di un titolo innovativo, se non la mera traduzione letterale di ciò che è raffigurato. Insomma, niente associazioni libere di idee alla René Magritte!
Nel 1982, però, arriva l’artista statunitense Barbara Kruger che scompone uno dei simboli dell’arte di tutti i secoli per creare un “Senza titolo”.
La congiunzione di Dio con Adamo, passaggio cruciale nel racconto biblico, qui viene messo sotto inchiesta ed in parallelo con l’aura di sacralità che aleggia attorno all’arte.
Il capolavoro artistico ormai è come una confessione religiosa e si vuole investire e credere nella sua immortalità e divinità. Un’opera può essere comprata, venduta o solo ammirata, ma occorre anche porre fede in essa.
Denuncia
Maurizio Cattelan, Senza Titolo (Bambini impiccati in piazza XXIV maggio a Milano) – 2004
L’arte New Dada ha forse come maggiore esponente l’italiano Maurizio Cattelan che, con le proprie installazioni, si ritrova sempre a smuovere lo spirito critico degli spettatori.
Significativa, in questo senso, è la scultura “Senza Titolo” apparsa una mattina in piazza XXIV maggio a Milano e che raffigura tre bambini con dimensioni reali impiccati all’albero più antico di tutta la città.
Il messaggio che l’artista intendeva veicolare è il bisogno di riportare l’attenzione sulla condizione minorile, in Italia e nel Mondo, che è spesso segnata da soprusi e violenze.
Gli esempi che si possono citare sono diversi, a partire dallo sfruttamento della manodopera minorile nelle fabbriche tessili, dell’uso dei bambini come veicolo per il traffico illegale di stupefacenti, sino ad arrivare alla negazione dei diritti nelle situazioni di conflitto.