Turbolenza di David Szalay è il libro perfetto per chiunque voglia iniziare a leggere o ricominciare a farlo. In parte gioca la sua scarsa lunghezza, che lo rende divorabile in un’unica sera (cosa che all’ego fa sempre bene, ammettiamolo), ma è soprattutto la sua semplicità narrativa, priva di fronzoli e molto umana, a lasciare incollati alle pagine.
Il libro non è altro che un ininterrotto piano sequenza in cui l’autore insegue a debita distanza storie di vite distanti e incomunicabili, ma che si dipanano da un unico nodo nevralgico: l’aeroporto. È vero, il simbolismo tra aerei in partenza ed esistenze spezzate, tra imbarchi affollati e nuovi inizi, può apparire alquanto spicciolo. Eppure non è questo il caso, per il semplice fatto che qui gli enormi aeromobili e le loro stalle servono solo da ponti tra realtà distanti non solo geograficamente. La “camera” si sposta di capitolo in capitolo da un personaggio all’altro, interrompendo la narrazione proprio quando si è raggiunto il giusto grado di empatia verso i soggetti della storia. È una scrittura crudele, priva di una qualche volontà indagatoria o esistenzialista, ma dedita solo a dipingere in fretta e con pochi tratti istanti rubati alle vite degli altri. A leggerlo, ci si sente un po’ dei voyeurs.
È indubbio che da questo libro si possano trarre grandi riflessioni poetiche, che lascio alla discrezione dei lettori, ma personalmente mi piace pensare che un racconto del genere non voglia essere nulla più di quello che è: un elenco di innocui intrecci, di quelli che tutti noi attraversiamo ogni giorno salendo su un tram, facendo la spesa o passeggiando per la strada. È probabile che nel tragitto che percorriamo da casa al lavoro o all’università incontriamo in media più persone di quante un individuo medievale ne incontrasse in tutta la sua vita. È impossibile conoscerle tutte e non è neanche detto che ci interessi. Ma quante curiosità, quanti dettagli, quante banalità ed eroismi ci stiamo perdendo.
La realtà non è compatta e si articola in miriadi di persone che interpretano la realtà secondo i propri sistemi di valori, che guardano il mondo con i loro occhi o che semplicemente odiano il nostro stesso gusto di gelato. L’incontro con questo voluminoso ammasso di esistenze è talmente pressante che l’atto di “ignorarsi” in pubblico è ritenuto socialmente equiparabile a un obbligo. Non ci si siede accanto a qualcuno che non si conosce se ci sono altri posti liberi, è una regola non scritta. Tuttavia, se alziamo lo sguardo dal nostro posto e ci mettiamo a scorgere le facce dei nostri vicini ci si rende conto ben presto che ognuno di loro sta vivendo e affrontando la nostra stessa identica situazione in una maniera tutta sua, per il semplice fatto che noi non siamo i protagonisti delle vite degli altri.
Gli anglofoni hanno una parola per indicare questa sensazione vertiginosa, sonder, che si può tradurre più o meno nella consapevolezza che ogni singola persona che incrociamo nel corso della nostra vita è la sola protagonista della propria; che ogni individuo è colmo di sogni, desideri, difetti e ambizioni in modo unico e inconoscibile al 100%. Un qualcosa che può decisamente ridimensionare la convinzione di essere il centro del mondo.
Come dice Falcinelli: “Il dramma della società di massa in fondo è tutto qui: pensiamo sempre che la folla siano gli altri”[1]; noi siamo folla tanto quanto gli altri, siamo cifre in un mare di numeri. Come gli alberi delle foreste più fitte, le nostre chiome diventano “timide”, si scostano per non spezzare i propri rami e per non rubare luce agli altri, scelgono di ignorarsi dignitosamente. È giusto così. Ma se diventassimo invisibili e potessimo seguire da vicino anche solo una manciata dei nostri simili probabilmente la curiosità ci divorerebbe.
I personaggi di Szalay si passano il testimone in un susseguirsi di episodi densi di significato per i loro protagonisti, ma invisibili per chi può solo passargli accanto. In fondo, questo libro non è che il racconto di una giornata qualunque per una decina di persone diverse; nulla più di quanto si verifica ogni giorno sulla Terra. Ed è per questo che funziona.
[1] Falcinelli, Riccardo, Figure, Einaudi, Torino, p. 243.