Halloween sarà anche passato, ma la spooky season finisce solo quando il sole smette di tramontare alle 16:30 e quando le sigarette in balcone la sera si possono fumare senza vestirsi a cipolla. Non essendo le suddette condizioni soddisfatte, la recensione di un film horror a metà novembre appare perfettamente calzante, soprattutto se il film in questione è ottimo. E femminista.
“Animale” è un recentissimo film francese diretto da Emma Benestan e proiettato a Torino nel corso del ToHorror Fantastic Film Fest, svoltosi dal 22 al 27 ottobre. Si tratta di una piccola perla all’interno di un genere in cui combinare pastrocchi cinematografici è fin troppo semplice e si aggancia a quel filone narrativo che lega a doppio filo la convivenza tra esseri umani e animali e il rischio che una linea di demarcazione tra i due regni non sia poi così spessa. L’horror si presta con facilità a ogni tipo di manipolazione perché paura, angoscia e tensione sono emozioni estremamente malleabili e applicabili a una molteplicità di contesti, di cui il sovrannaturale è solo uno dei tanti. Di conseguenza, non è necessario (anche se godibile) che il perno della storia sia una creatura mostruosa o un feroce assassino psicopatico. Tutto può far paura, e la maestria di un regista emerge proprio dalla capacità di caricare di significati orrorifici anche le situazioni più triviali. Talvolta, il sovrannaturale non è che una sorta di metafora, la sublimazione di un trauma vertiginoso che si proietta davanti agli occhi di chi lo ha vissuto, così come degli spettatori, sotto forma di cruda paura, di smarrimento e di angoscia. In questo, Emma Benestan riesce alla perfezione.
Il film segue la storia di Nejma, una ragazza che vive e lavora in un allevamento di tori nella regione francese della Camargue, dove si allena proprio nella pratica estremamente pericolosa della corsa camarghese. L’ambiente è, naturalmente, a massima presenza maschile, il che già di per sé basta a creare un’atmosfera di continua tensione.
L’intera vita di Nejma si sviluppa intorno al suo bisogno di sentirsi pienamente accettata da una realtà maschile dalla quale non si sente parte al cento per cento. Non solo lo sport che pratica è connotato da una violenza bruta tipicamente associata al testosterone, ma il suo intero lavoro, che la porta a vivere a stretto contatto con i tori, la pone in paragone costante con il simbolo per eccellenza della virilità animalesca, cui tutti i suoi colleghi sembrano voler ambire. È proprio con questi animali (i tori, non i suoi umanissimi colleghi) che sviluppa un legame di fredda ma tenera comprensione.
Sono i tori a seguirla con i loro occhi gonfi di bontà e rabbia nel corso di tutto il film; sono i tori a capire cosa si provi veramente a non essere altro che una bestia agli occhi altrui; sono i tori che la proteggono dal trauma, le permettono di sublimarlo e di vendicarlo. Ciò che intercorre tra Nejma e i suoi animali è quel tipo di rapporto che solo le donne possono comprendere appieno; è quella tacita comprensione di sguardi che lega le ragazze con gli occhi pesti a quelle che hanno scelto di non denunciare gli stupri, quelle che sono state sessualizzate per la prima volta a 9 anni e quelle che muoiono a 87 per mano del marito. I tori sono donne. E sfortunatamente per gli uomini sanno correre veloce e hanno splendide corna appuntite.
“Animale” è un horror che non ha bisogno di inventare scenari terrificanti, perché a volte basta guardarsi intorno per vedere quanto il mondo faccia paura già di suo. Non è un’opera spaventosa per gli elementi immaginifici che aggiunge alla trama, ma per l’ossatura della storia stessa. Solo un uomo, guardando questo film, può spaventarsi di fronte a ciò che vi è di surreale e orrorifico. Per le donne, invece, è il regalo più bello che Benestan potesse farci: un’ode alla vendetta, a una licantropia liberatoria, al body horror in cui le membra si ribellano a ciò che è stato loro imposto, alla solidarietà che forse solo gli animali possono darci, dato che gli uomini ci hanno abbandonato da tempo. Consiglio a tutte un test: fate vedere questo film a un uomo e guardate se le scene in cui prova spavento sono le stesse vostre. Se non è così, fate attenzione.
Emma Benestan, con questo film, permette di aprire un’ampia riflessione sul rapporto che lega le donne, quindi le più comuni vittime di violenza e abusi, a prodotti culturali come i film horror e addirittura alla moda dilagante del truecrime. Jude Ellison Sady Doyle ha analizzato il fenomeno con una penna magistrale nel suo libro “Il mostruoso femminile – il patriarcato e la paura della donne” in cui, tra le mille interessantissime analisi che offre, si sofferma sull’eventualità che a essere attratte dalla violenza, immaginata o meno, siano le donne proprio in funzione di una ricerca spasmodica di una sublimazione del loro stesso trauma. L’horror offre una possibilità di evasione alternativa, di sicuro più sanguinosa del bricolage o del pilates, e canalizza un transfert emotivo intenso nei confronti delle donne squartate sugli schermi, o, e qui la situazione si fa interessante, delle mogli annoiate e frustrate che si vendicano in maniera meticolosa e maniacale dei mariti fedifraghi. È questo il meccanismo, secondo Sady Doyle, a garantire il successo di film come “Gone girl” e la continua affluenza di utenza femminile ai podcast che narrano scabrosi dettagli di crimini realmente avvenuti. L’horror appare, dunque, come una sorta di sacco da boxe, una rage room in cui le donne possono urlare con tutta la violenza che conosco bene proprio perché ne sono le vittime prescelte. Tutte subiamo violenza e tutte fantastichiamo di vendicarla. Se non è così, non siamo ancora arrabbiate abbastanza. In questo caso, in nostro soccorso arriveranno altre donne con le loro storie e le loro conoscenze per farci infuriare come si deve. In “Animale” ci pensano i tori che, evidentemente, non sono poi così virili.
Forse per il pubblico femminile l’horror è un modo di reinterpretare la realtà che vivono ogni giorno, già spaventosa di suo. Forse, gli horror diretti da donne non sentono il bisogno di ricorrere a elementi interamente immaginari per produrre spaventi fini a sé stessi, perché sanno che a suscitare vera paura possono essere le scene della vita quotidiana più banale. Un po’ come diceva Marquez nel suo discorso pronunciato nel 1982 in seguito alla vincita del Nobel, quando dichiarò che, in quanto autore dell’America Latina, aveva fatto ricorso a una narrazione impregnata di realismo magico perché il suo paese, la Colombia, così come tutto il resto del continente, era abituato a una storia tanto vivace da risultare surreale, tanto violenta da sembrare assurda, così forse le donne per portare in scena le storie più atroci non devono fare altro che pescare a piene mani dal loro quotidiano.
E, forse, non è un caso che i film horror che io considero veri capolavori, come Babadook e Raw, sono diretti da donne.