Mesi fa, parlando con mia sorella, la conversazione si è ingolfata su un quesito tanto stupido quanto di difficile soluzione. La domanda che ci ponevamo era se fosse meglio avere una specie di piccione viaggiatore, in grado di volare da un luogo all’altro carpendo tutti i pettegolezzi più succosi per poi riportarli per filo e per segno, oppure possedere una perfetta padronanza della lingua scritta e parlata. Ora, sarà stato il contesto decisamente poco formale in cui la discussione si stava svolgendo, sarà stato il livello di confidenza che solo la sorellanza può garantire, sta di fatto che la possibilità di rinunciare all’idea di campare cent’anni e di ficcare il naso negli affari altrui mi è subito parsa l’unica soluzione vantaggiosa. Tutto questo avveniva prima che io leggessi Crash, il libro che mi ha travolta con la prosa più ricca, dettagliata e sempre così maledettamente appropriata che io abbia mai letto. E parla di gente che si eccita sessualmente schiantandosi in automobile.
Non è facile parlare di un libro del genere, in parte proprio per la trama appena accennata e di evidente originalità (a dir poco), ma anche e soprattutto perché romanzi simili non si prestano con facilità a una piena comprensione. Ma è proprio questo il tipo di letture che io reputo davvero stimolanti: di fronte a intrecci così innaturali e illogici per il nostro quotidiano e a protagonisti così distanti dalla nostra placida normalità, non c’è niente di più eccitante dell’abbandonarsi alla prosa di uno scrittore per vedere cosa ci mostrerà, come vuole farlo e, forse, anche perché. La fantascienza, genere prediletto dall’autore Ballard, si sposa a pennello con questo scenario, ma anche con la possibilità che l’eccesso di immaginazione si trasformi in una narrazione incoerente e disordinata. Non è questo il caso. Ballard riesce a conciliare la descrizione di eventi disturbanti e grotteschi con un’analisi lucida e critica del rapporto tra esseri umani e tecnologia, talmente onnipresente da diventare implicita, trasparente come l’aria, e lo fa attraverso una prosa di un’incisività impeccabile.
Gli eventi scaturiscono da un tragico e violento incidente stradale che costa un ricovero al protagonista Ballard (volontariamente omonimo dell’autore) e la morte a uno dei coniugi occupanti l’altra vettura coinvolta. I problemi nascono quando Ballard si rende conto che non solo non prova una particolare vergogna nei confronti della donna che ha reso vedova, ma anzi ne è attratto sessualmente. Così come lei lo è da lui. Così come la moglie di Ballard lo è dall’intera situazione. Così come tutti lo sono dalle automobili.
È da questo incipit in sé già allucinatorio che si sviluppa una spirale discendente lungo la quale il protagonista entrerà sempre più in contatto con i suoi desideri più reconditi, toccando con mano (e altro) la parafilia che lo lega indissolubilmente agli oggetti più mortiferi eppure più banali del mondo: le macchine. Nel libro, persone e macchine cercano con forza di unirsi in uniche monadi, mentre le linee sinuose delle scocche ammiccano sensuali a coloro che, a causa delle medesime quattro ruote, sono rimasti mutilati, feriti, traumatizzati. Nel mondo di Ballard, così squisitamente tecnico ed epurato di ogni romanticismo, gli ambienti in cui si muovono i protagonisti si prosciugano di ogni attrattiva e si riducono a forme fredde e industriali. Sembra di camminare o, meglio, di guidare, all’interno di un quadro di Malevič. Ad esercitare un’attrattiva intensa e irresistibile sono solo le macchine, con le loro interiora meccaniche e la loro carica di morte potenziale, che trascinano i personaggi in una spasmodica ricerca di quell’amore a prima vista che li ha legati alle autovetture. Questo vuol dire pedinare con meticolosità le ambulanze che raccattano feriti e cadaveri nelle autostrade, ricreare incidenti mortali con manichini da crash test, fotografare auto disastrate, unire fantasie di schianti sull’asfalto nei propri amplessi, sfruttare quest’ultimi per simulare le posizioni dei cadaveri all’interno degli abitacoli. Fa impressione vero? Ma in fondo, il sesso e la morte si fanno allo stesso modo: sdraiati e nudi.
Per quanto possa sembrare impossibile alla luce di quanto detto finora, Crash è un libro pregno di poesia. Se è vero che il linguaggio permette di esprimete molti concetti in infiniti modi, è altrettanto vero che per descrivere un amplesso tra uomo e macchina serve una conoscenza anatomica di entrambi, che si traduce in un lessico talmente preciso da diventare professionale. Sarà che non mi ero mai soffermata troppo sull’idea di simili incontri sessuali, ma ora che li ho letti non posso pensare che essi vengano descritti in modo diverso da come ha fatto Ballard. Sembra quasi che l’unico vero contatto che possa unire esseri umani e freddi ingranaggi siano le parole, e quelle di Ballard descrivono un’attrazione tanto disturbata quanto commovente. La proprietà lessicale utilizzata è talmente minuziosa da diventare un’opera d’arte a sé stante. Ci sono frasi e periodi talmente ben costruiti che sembra quasi di poterne saggiare la solidità con mano. Si maneggia questo libro come un artigianato linguistico di ottima fattura.
Non so come interpretare il fatto che a farmi cambiare idea in merito a una domanda su piccioni e gossip sia stato un libro che parli di amplessi con veicoli a motore. Ma so che probabilmente poche frasi contengono più verità di quella scritta, e messa in bocca a uno dei suoi personaggi da Oscar Wilde: “non esistono libri morali o immorali, esistono solo libri scritto bene o libri scritti male”. Ecco, Crash è scritto benissimo. Ed è questa la cosa più importante.