Ancora una volta l’autorevolezza della critica alla violenza di genere passa attraverso l’esperienza del dolore di un uomo; o, più precisamente, di un padre.
Così Gino Cecchettin si ritrova a dirigere per un giorno La Stampa, firmando l’edizione del 25 novembre, la giornata dedicata alla lotta contro la violenza sulle donne.
Non è in discussione né il suo dolore né il suo impegno pubblico: entrambi sono reali e degni di rispetto. È invece in discussione la scelta mediatica, una sotto-struttura che merita di essere interrogata proprio perché rischia di passare per naturale quanto lo sono i fatti.
Possiamo chiederci: a quale titolo è stato affidato un numero tanto simbolico a lui, e non a una professoressa di Gender Studies, a una militante femminista con anni di attivismo alle spalle, o a una rappresentante di un centro antiviolenza, dove teoria ed esperienza sul campo si intrecciano?
Nel nostro discorso pubblico sembra agire un’estetica della vittima: la figura che ha subito una perdita diventa automaticamente garante di autorevolezza, qualità, verità (per approfondire, consiglio Critica della vittima di Daniele Giglioli). Eppure la vittima reale è sotto due metri di terra; e se non ci è già finita, spesso cammina accanto a un uomo che dice di amarla. (È una provocazione: ma quanto davvero?)
In questo spostamento simbolico, il centro non è più il femminicidio come crimine contro l’umanità (è molto di più di un problema da donne) ma il dolore di un padre. Un dolore atroce, che nessuno sano di mente si permetterebbe di sminuire, ma che suo malgrado rischia di diventare il perno narrativo, deviando lo sguardo dalla struttura che dovrebbe denunciare.
E se anche la “vittima” dovesse avere voce in capitolo su tutto ciò che la riguarda, siamo sicuri che l’autorevolezza del discorso possa trasferirsi automaticamente a chi condivide solo il dolore, ma non lo status, la condizione, l’esperienza materiale della violenza?
Non si tratta di Cecchettin.
Si tratta di qualcosa di più.

