Oggi più che mai i giochi possono apparire come uno spreco di tempo che potrebbe essere impiegato in maniera molto più produttiva dedicandosi a qualcosa di concreto, e non un’attività dagli obiettivi che paiono arbitrari. I giochi che si salvano meglio da queste critiche spesso sono quelli sportivi, dato che in filosofia dello sport il valore del gioco è spesso espresso in termini di abilità. Tom Hurka afferma, seguendo questa idea, che i giochi sono preziosi perchè permettono di raggiungere risultati difficili. È lapalissiano come gli obbiettivi difficili non siano propri solo dei giochi. Infatti, anche la ricerca medica si prefigge obiettivi estremamente complessi e che se raggiunti rappresentano un utile progresso per la società, a differenza di quanto succede con gli obiettivi ludici i quali, al massimo, generano una scarica di dopamina nel giocatore una volta completati. Hurka conclude, alla luce di ciò, che giocare è meno prezioso di investire i nostri sforzi in attività non ludiche più utili. I giochi risulterebbero utili davvero solo in un utopistico scenario in cui avremo risolto tutti i problemi pratici della società. Si noti che Hurka arriva a questa conclusione in virtù della considerazione del valore dei giochi generato nella loro difficoltà, aspetto condiviso da altre attività della nostra vita, e non da ciò che hanno di unico, venendo così superati in termini valoriali da attività di pari o maggiore difficoltà con risvolti più pratici. Questo approccio è condiviso da molti altri punti di vista, come quello di Tavinor o di Gauit dove i giochi sono presi in considerazione in quanto possibili trasmettitori di una narrativa, poiché assimilati per esempio al cinema. Tali prospettive non tengono conto dell’orizzonte di pensiero e di beni sociali unici della precisa forma del gioco: una speciale attività pratica connessa strettamente con le opere artistiche. In questa sede ci interessa analizzare questa porzione unica del potenziale dei giochi e del loro valore.
Agency e modalità agenziali
Fornire una definizione precisa di agency è un compito molto complesso. Nguyen in Games: Agency as Art (2020) ritiene che non vi sia una consolidata interpretazione. La sfida risulta complessa a causa degli studi su una possibile agency di gruppo o altre forme di agency collettiva come di aziende o società. La questione è ancora più ostica se si considerano le agency degli animali e l’attualissima questione di un agency dei robot e degli algoritmi. Quando parliamo di agency intendiamo l’implicazione di un’azione intenzionale o un’azione per un motivo. Indagare su come funzionano i giochi e come funziona il loro mezzo di espressione artistico ci permetterà di avere una idea più chiara di questa idea di base.
“Ogni giorno e con ogni mezzo a nostra disposizione, affrontiamo qualsiasi cosa il mondo ci getti addosso. Nella vita quotidiana la forma della lotta ci è imposta dal mondo indifferente e arbitrario, mentre nei giochi, al contrario, la forma del nostro impegno pratico è progettata in modo intenzionale e creativo dai game designer” [1]
Se nella vita usiamo i mezzi per ottenere un fine, nei giochi abbiamo la possibilità di scegliere un fine a causa dei mezzi che si adottano per raggiungerlo, e dobbiamo quindi ragionare in modo inverso a come siamo abituati nell’interfacciarsi con i mezzi e i fini nella vita quotidiana. Un gioco ci illustra un obiettivo da perseguire e ci indica quali abilità necessitiamo per conseguirlo. Questo viene fatto attraverso l’accurata creazione di ostacoli progettati con lo scopo di farci adattare a quel determinato obiettivo e questi elementi sono utilizzati per modellare la nostra esperienza. Quando giochiamo stiamo quindi assumendo una forma alternativa di agency.
Nei giochi possiamo progettare il mondo che occuperemo per adattarlo a noi e ai nostri desideri, come ad esempio quando nei giochi i conflitti possono essere modellati per essere esteticamente interessanti. La modalità agenziale costituisce le nostre possibilità di azione verso gli obiettivi che stiamo perseguendo e la nostra motivazione verso di essi. Nel corso della nostra quotidianità agiamo sempre in una sola modalità agenziale, molto più complessa e strutturata rispetto a quelle costruite dal game designer, fino a risultare molto opaca e difficile da decifrare. Nella nostra vita identificare chiari obiettivi o instaurare un ordine gerarchico tra i vari fini che ci prefiggiamo è molto complesso; inoltre, abbiamo possibilità di azione illimitate e ci muoviamo in un mondo in continuo cambiamento dove non siamo in pieno controllo di nulla. Nei giochi, invece, le agency in cui ci immergiamo sono caratterizzate da una straordinaria chiarezza, responsabile, come vedremo, dell’enorme fascino dei giochi soprattutto nella società contemporanea dove possono fungere da balsami esistenziali. Mentre stiamo giocando sappiamo sempre chiaramente cosa dobbiamo fare e come dobbiamo procedere per arrivarci. Gli obiettivi, le abilità e la struttura dell’ambiente sono quindi i mezzi con cui i game designer costruiscono e modellano l’esperienza di gioco e ciò che il giocatore può farvi all’interno: con questi tre elementi il game designer plasma l’agency del giocatore. Secondo Nguyen, infatti, una modalità agenziale è una particolare struttura dell’agire pratico che un giocatore adotta temporaneamente per partecipare al gioco. Il fatto che il game designer specifichi gli scopi che il giocatore deve seguire e l’abilità che il giocatore deve assumere è ciò che rende i giochi una forma d’arte. Questo è un punto centrale nella teoria di Nguyen, di cui torneremo a parlare nel prossimo paragrafo esaminando le prescrizioni connesse all’esperienza delle opere d’arte.
Analizziamo il gioco di ruolo Sign, realizzato da Kathryn Hymes e Hakan Seyalioglu, e la modalità agenziale in cui permette di immergerci come giocatori. Il gioco è incentrato sulla creazione da parte dei giocatori di un linguaggio. L’idea nasce da ciò che accade in Nicaragua negli anni settanta, dove la mancanza di una lingua dei segni causò gravi problemi di isolamento ai bambini sordi. Il governo decise di raggruppare questi bambini per formare delle classi dove gli sarebbe stato insegnato a leggere il labiale. I bambini, però, diedero vita in modo spontaneo e autonomo a un loro linguaggio dei segni. In Sign i giocatori prendono le sembianze di quei bambini, nel loro primo giorno di scuola. A ogni giocaotre vengono assegnati (tramite la distribuzione di una carta contenente le informazioni) una storia personale ed un fatto privato che il personaggio avrebbe sempre voluto dire a qualcuno ma che, a causa della sua condizione non ha mai avuto modo di condividere.

I fatti privati sono chiamate verità del personaggio e hanno la forma di frasi come: “Vorrei piacere a tutti a scuola” o “Ho paura di deludere i miei genitori”. Il gioco si svolge nel totale silenzio, l’unico modo che i giocatori hanno per comunicare è un nuovo linguaggio dei segni che i giocatori dovranno inventare durante la partita. Durante ognuno dei tre turni in cui si articola il gioco, ogni giocatore inventa un segno e mostra il suo utilizzo agli altri giocatori. Alla fine di ogni turno i giocatori tentano una conversazione libera, barcamenandosi disperatamente per comunicare con il ristretto inventario di segni a loro disposizione. I segni inventati durante la partita vengono modificati e si evolvono in maniera spontanea da quelli iniziali. Al sorgere della sensazione di essere fraintesi o di non star capendo qualcuno il gioco richiede di farsi un segno sulla mano con un pennarello. Durante la partita si vive un’esperienza coinvolgente, meravigliosa ed al tempo stesso frustrante. L’esperienza risulta più profonda quanto più è forte l’impegno dei giocatori nella comunicazione delle verità dei personaggi che assieme alle regole del gioco permette di vivere un’esperienza sorprendentemente emotiva e intima. Quando si gioca a Sign in questo modo si viene assorbiti dai dettami pratici dell’invenzione del linguaggio e della stabilizzazione dei significati [2]. Proprio questo stato motivazionale del gioco è ciò che ci interessa definire: le regole del gioco ci suggeriscono qualcosa a cui interessarci e noi iniziamo a farlo.
Un gioco da tavolo ci dice che dobbiamo preoccuparci per raccogliere delle pedine a forma di moneta, un videogioco di saltare su delle piattaforme per giungere da un punto A a un punto B, uno sport di far entrare una palla in una rete. Per approfondire il concetto di agency che abbiamo introdotto può venirci in aiuto la definizione di gioco usata da Bernard Suits: l’intento non è addentrarci della complessa questione della definizione ontologica del gioco ma comprendere meglio il peculiare rapporto che sussiste tra la il gioco e la motivazione pratica del giocatore. Nel celebre “La cicala e le formiche, gioco vita e utopia” Suits definisce così il gioco: “Giocare è il tentativo volontario di superare ostacoli non necessari”. L’attività del giocatore è contrapposta all’attività tecnica e gli esempi di Suits rendono evidente l’assurdità della logica del gioco se guardato dal punto di vista dell’efficienza.
Immaginiamo che il nostro lavoro sia far entrare una pallina in una specifica buca. Il modo più efficiente per farlo è quello di prendere la pallina con la mano, camminare fino alla buca e appoggiare delicatamente la pallina al suo interno; abbiamo compiuto il nostro compito in poco tempo, con zero margine di errore e impiegando il minimo sforzo. Facciamo il paragone tra questa attività tecnica e il gioco del golf: se decidiamo di giocare a golf, accettiamo volontariamente una serie di regole che limitano il metodo efficiente per imbucare la pallina. Non possiamo prendere la pallina con la mano ma si deve usare un bastone dalla forma bizzarra e colpire la pallina da centinaia di metri di distanza: questi due obblighi rendono estremamente difficoltoso e inefficiente questo compito. La definizione appena vista si applica perfettamente: giocare a golf è il tentativo volontario di superare ostacoli non necessari, in questo caso, la distanza e l’uso della mazza e, per raggiungere un obiettivo, mettere la palla in buca. Il golf esiste solo perché noi accettiamo di non usare la scorciatoia più efficiente per raggiungere l’obiettivo e, operando questa scelta, è evidente come la struttura del nostro agire pratico subisca importanti cambiamenti. Nell’attività tecnica cerchiamo di raggiungere uno scopo che si persegue per il suo valore e proprio in virtù di ciò lo si cerca di raggiungere nel modo più efficiente che abbiamo a disposizione, mentre quando giochiamo accettiamo di sottostare a delle insufficienze, che però sono proprio quelle che danno un senso al fine del gioco, munito di valore per il giocatore solo se raggiunto all’interno di determinati vincoli. Questa è la nostra struttura motivazionale nel gioco. Di per sé far passare una palla in un canestro non ha nessun valore, nessuno andrebbe mai in una campo da pallacanestro con una scala passando del tempo a far passare una palla nel canestro ripetutamente. Allo stesso modo nessuno aprirebbe la scatola di Monopoli da solo crogiolandosi tra le finte banconote. Fuori dai vincoli e dalle strutture del gioco queste azioni sono irrilevanti.
Quando parliamo dei giochi è bene distinguere con attenzione tra gli obiettivi di un gioco e il nostro scopo nel giocarlo. L’obiettivo è ciò che ci prefiggiamo di raggiungere durante il gioco: arrivare per primi al traguardo, fare più punti possibili, conquistare o vincere la partita. Il nostro scopo in un gioco è il motivo per cui lo giochiamo: per divertirci, per sviluppare determinate abilità, per l’appagamento generato dalla vittoria, la soddisfazione della realizzazione di un’attività complessa o anche per la bellezza delle azioni che possono generarsi giocando.
L’analisi di Suits mostra che i giochi sono strutture di ragionamento pratico. Il game designer stabilisce x come l’obiettivo dei giocatori, y come le mosse consentite e z come l’insieme degli ostacoli; non crea solo il mondo dove i giocatori si muoveranno ma anche lo scheletro dell’agency concreta all’interno di quel mondo. Il game designer progetta le abilità e gli obiettivi dei giocatori nel gioco e il controllo sulla natura dell’agency fa parte del modo in cui il progettista da forma all’attività ludica. Nguyen si concentra sull’armonia estetica che i giochi possono offrire proprio in virtù del controllo che i game designer hanno sia sul mondo di gioco sia sull’agente, connesso al gioco sfidante con valore estetico, in ultima analisi reso possibile dal fatto che i giochi funzionino con il mezzo di espressione artistica dell’agency.
Cristallizzare la praticità
L’idea che il mezzo artistico con cui opera il game designer sia l’agency ci rivela qualcosa di importante sul ruolo che i giochi possono svolgere nella vita umana. I giochi si rivelano essere un modo per scrivere forme di agency, per iscrivervi in un artefatto. I giochi sono una tecnica per registrare pezzi dell’esperienza umana. Nel cosro della nostra storia abbiamo sviluppato metodi per registrare storie con romanzi, poesie, film e tanti altri tipi di narrazione; abbiamo sviluppato modi per catturare immagini: con il disegno, la pittura la fotografia e di nuovo l’arte cinematografica; metodi per catturare suoni con gli spartiti; modi di registrare sequenze di azioni da eseguire grazie a manuali di istruzioni, libri di cucina, eserciziari. Una volta che siamo in grado di mettere qualcosa “per iscritto” possiamo studiarla con più facilità.
John Dewey ha suggerito che molte arti sono cristallizzazioni dell’esperienza umana ordinaria: la narrativa è la cristallizzazione di un racconto, le arti visive sono cristallizzazioni del guardare, la musica una cristallizzazione dell’ascoltare. Nguyen introduce il concetto fondamentale secondo cui il gioco opera scolpendo l’attività pratica dell’essere umano. A differenza delle altre arti che lavorano su medium come le immagini o i suoni, il gioco lavora con la nostra capacità di decidere e di agire. In linea con quanto detto finora Nygen sostiene che i giochi siano la cristallizzazione della praticità
La pittura può quindi essere interpretata come un modo per cristallizzare delle immagini, la musica come un mezzo per conservare dei suoni. Se ci spingiamo un po più il la con questa idea non facciamo fatica a considerare le storie come qualcosa che ci permette di fare nostre determinate narrazioni. L’analogia con le narrazioni è particolarmente rilevante. Come la lettura di un romanzo ci permette di metterci nei panni di una vita che non abbiamo vissuto, in un mondo diverso dal nostro e con dinamiche molto lontane dalla nostra vita quotidiana, i giochi ci permettono di immergerci in forme di agency che non avremmo sperimentato da soli. Queste esperienze, proprio come per l’arte, possono rivelarsi molto preziose come parte della nostra crescita. Nguyen propone infatti un’analogia con che Martha Nussbaum mostra in L’intelligenza delle emozioni (2001). Nel testo, Nussbaum dimostra come l’esposizione a determinate narrazioni plasmi il nostro modo di vedere il mondo e i nostri valori, nello specifico il modo in cui la letteratura ci permette di ampliare la nostra capacità di avvicinarci agli altri e comprendere le sfide e le difficoltà vissute da membri appartenenti a gruppi sociali diversi dal nostro. Esporci a queste storie elasticizza la nostra compassione e ci permette di essere più vicini, comprendere gli altri e migliorare la nostra integrità morale. Risulta ragionevole credere che i nostri valori e il nostro carattere possano essere influenzati dalle diverse modalità agenziali con le quali entriamo in contatto tramite i giochi. Gli scopi che abbiamo durante il gioco sono molto diversi da quelli della vita ordinaria; inoltre i nostri valori in essa sono molto resistenti al cambiamento e spesso risultano essere inamovibili. Diamo valore alla libertà, alla felicità e anche nella sfera più personale si verificano pochi cambiamenti. L’attività del gioco è diversa, i nostri scopi possono cambiare in modo facile e fluido, possiamo adottarne di nuovi che ci guideranno per tutta la durata del gioco e che verranno poi abbandonati. Quando giochiamo assumiamo vincoli, abilità e scopi temporanei. Nguyen parla soprattutto di risvolti pratici della nostra esperienza con diverse modalità agenziali: specifici giochi aiutano lo sviluppo di specifiche abilità come l’arrampicata con equilibrio e il gioco degli scacchi per la capacità di calcolo. Comprendere l’ontologia presentata da Nygen del gioco ci aiuta a capire in che senso possiamo parlare del gioco come strumento registratore di agency .
