ABITARE GLI SPAZI IN RELAZIONE ALLA SOLITUDINE

Il New York Times Magazine ha di recente pubblicato un articolo, firmato da Matthew Shaer, incentrato sulla solitudine come vera e propria crisi, incrementata dalla pandemia dovuta al Covid ma in realtà abitante le pieghe del tessuto sociale già da prima. La solitudine si presenta come una sensazione
composita o multidimensionale, avente elementi di tristezza ma anche di ansia, paura e angoscia. Si
tratta, dunque, di un’esperienza intrinsecamente soggettiva e che pertanto non è facilmente
comprensibile da chi non ne è affetto o crede di non esserlo. Ciò che l’articolo pone in evidenza è
anzitutto la relazione tra la sensazione di solitudine e il venir meno di spazi condivisi. Laddove,
comunque, vi sia disponibilità di una vicinanza fisica con diversi soggetti, può darsi che manchi la
vicinanza emotiva e con essa la prospettiva della creazione di un rapporto che possa definirsi
significativo. Con la pandemia ha prevalso lo smartworking e questa sorta di pendolarismo virtuale
si è rivelato, sì, efficace nell’abbattimento dei costi e nell’aumento della produttività, ma ha
danneggiato tutti i progressi – in atto o in potenza – aventi a che fare con la costruzione di una
comunità, e con quello che è il senso di comunità. Avere un luogo di lavoro diverso dalle stanze di
casa permette di stabilire connessioni con persone esterne al nucleo familiare, con le quali si possono
scoprire affinità o interessi, e dalle quali possono anche scaturire stimolanti occasioni di confronto e
dibattito.

L’articolo termina con l’analisi dello spazio digitale, e con la visione della crisi di solitudine
come periodo di acclimatamento di massa e passaggio evolutivo, durante il quale scendiamo a
compromessi e ci apriamo ad altre maniere di fare comunità. Ciò che mi domando ora è:quanto noi
– esseri umani viventi diversi luoghi nel corso di una medesima giornata – siamo consapevoli del
modo in cui abitiamo i luoghi. Che cosa significa abitare? Che cosa è lo spazio o il luogo? I modi
dell’abitare possono essere i più disparati, credo, e penso che vadano dall’insinuarsi silenziosamente
in un contesto al prendere coscienza del fatto che, una volta entrati a far parte di un determinato
ambiente, si abbia voce in capitolo rispetto ad eventuali cambiamenti dello spazio medesimo. È un nostro
diritto abitare uno spazio e farlo nostro poco a poco, non solo acclimatandocisi, ma anche per esempio avanzando proposte di modifica di alcuni aspetti o rendendolo più colorato nel senso di
cromaticamente affine al nostro umore e al nostro essere. Quante e quanti di noi sentono la necessità
di rendere propria la stanza affittata da fuorisede? Nel momento in cui si mette mano alla stanza –
attaccando poster, accendendo candele o, ancora, mettendo in bella vista foto e ricordi – si sta
modificando un contesto. Perché certo che quella stanza appartiene a chi la affitta per il tempo in cui
l’affitta, ma essa è già inserita in una normalità che non ci appartiene totalmente, e su cui può risultare
dapprima complicato affacciarsi, soprattutto se non ci si è domandati che significato abbia abitare lo
spazio per sé. Qual è la relazione tra solitudine e abitazione degli spazi? Perché sì, penso che una
relazione ci sia e che la solitudine non sia solo conseguenza della mancata comunanza di luoghi, ma
anche del volontario o inconscio allontanamento da un luogo in seguito ad un’autocritica più o meno
schietta del modo in cui abitiamo gli spazi. Mi spiego meglio: definisco spazio tutto ciò che ha a che
fare con la costruzione di collegamenti emotivi con persone e oggetti. Non parlo perciò solo di spazi
fisici, come una camera o il parco pubblico, ma anche di spazi interiori, come quelli che vediamo
nelle nostre fantasie e nei nostri sogni, e di spazi drammatici, quali possono essere quelli in cui ci
immergiamo leggendo un libro o assistendo ad uno spettacolo teatrale. Può darsi che, talvolta
addirittura sorvolando sulla domanda circa il modo in cui abitiamo qualsivoglia luogo, arriviamo alla
conclusione impietosa che non siamo in grado di abitarlo come le persone giudicano dovremmo fare
o come il nostro lato più critico vorrebbe facessimo. Ciò potrebbe portare a ricercare l’isolamento
fisico come fosse l’unico rifugio sicuro disponibile, non tenendo però nella giusta considerazione la
riflessione attorno alla maniera di declinare il proprio essere nei luoghi dell’agire. Potrebbe poi
portare anche a sentirsi soli nel senso di sentire di non essere capiti, di essere continuamente fraintesi,
di essere travisati senza che ci sia, da parte degli altri, sforzo alcuno per stabilire un contatto emotivo
che vada al di là della semplice apparenza o del giudizio superficiale rispetto alla goffaggine o
insicurezza con la quale ci si approccia ad un luogo. Oltre, quindi, alle osservazioni sociali presentate
nell’articolo – che è disponibile sul sito di Internazionale nel numero 1581 – ritengo che sia
fondamentale dare il giusto rilievo al porsi di questioni essenziali e al contenuto delle nostre
risposte. Chi siamo quando abitiamo gli spazi? Cosa cambia, nel nostro modo di agire, quando
passiamo da uno spazio individuale ad uno spazio collettivo? Cosa ci soddisfa della nostra
declinazione dell’abitare e cosa meno? Se ci troviamo davvero in un periodo di acclimatamento di
massa, è il momento giusto per prenderci il tempo di sottoporci a queste domande, e provare a darvi
delle risposte.

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