Nel 1992 Donna Tartt ha scritto il libro che non solo sarebbe diventato un classico della letteratura contemporanea, ma che l’avrebbe consacrata nell’olimpo degli autori più apprezzati del nostro tempo. Dio d’illusioni (in inglese The secret history) è un vero e proprio caso editoriale che ad oggi, a distanza di più di 30 anni, non cessa di racimolare nuovi lettori.
Ciò che io personalmente (questa è la parola chiave di tutto questo articolo) ritengo problematico a riguardo non è certo il successo di un libro scritto in maniera ottima, ma il tipo di influenza che ha avuto sulla letteratura successiva insieme a una delle ragioni principali del suo impatto sul grande pubblico: l’estetica.
Dio d’illusioni è, infatti, un grande libro d’atmosfera, molto imperniato sulle ambientazioni in cui si svolgono le vicende e sulla caratterizzazione a dir poco eccentrica dei personaggi. La storia si sviluppa in un prestigioso college del Vermont, di chiara ispirazione europea a livello architettonico, e segue la vita misteriosa di cinque studenti ricchi e di chiara estrazione élitaria. Ad essi si aggiungerà il protagonista, proveniente da un background diametralmente opposto, che cercherà in ogni modo di inserirsi nelle loro dinamiche di gruppo, anche a quelle più assurde e pericolose. I protagonisti non sono solo ricchi, ma anche studenti brillanti e unici frequentatori delle lezioni tenute da un misterioso professore di lettere antiche, Julian Morrow, presentato nel romanzo come un genio oscuro. Qui, per me, cominciano già i problemi narrativi. Nonostante il libro si focalizzi più e più volte sull’importanza della conoscenza e cerchi in ogni modo di presentarsi come un’opera intellettualmente elevata e destinata a un pubblico colto, non riesco a far a meno di pensare che questo intento non sia stato assolutamente raggiunto. E’ vero, i personaggi sono ossessionati da arte e letteratura, ma delle loro lezioni o delle loro tesine noi lettori non ne sappiamo niente; le lezioni con Morrow sono viste come il coronamento dell’ambizione accademica di ogni studente, eppure non vengono mai descritte né ne viene svelato il contenuto se non per una singola volta in uno dei primi capitoli (forse uno dei migliori, a dimostrazione ulteriore del potenziale sprecato di questo libro). Se i personaggi sono così brillanti e intelligenti perché non ne abbiamo mai una prova? Da cosa dovremmo dedurre questa loro intellettualismo? Ed è qui che la risposta che il libro sembra dare non mi piace per niente.
I protagonisti di Donna Tartt sono intelligenti perché indossano abiti vintage dalle tinte marroni (anche se sono all’università negli anni ’80), perché frequentano un college di gusto neogotico, perché bevono vino rosso e fumano sigarette alle 3 del mattino e perchè sono mostruosamente pretenziosi. Insomma, non per quello di cui parlano, non per quello di cui scrivono. Tutto fumo e niente arrosto.
Non penso che quella di Donna Tartt volesse essere una sottile critica al finto intelletualismo ricco e viziato dell’america di Reagan, perché il libro su questo non si concentra per niente. Anzi, l’estetica appena descritta cui tutti i protagonisti si conformano e ricalcata da dettagli su dettagli come a riprova di un apparire che necessariamente appartiene a un essere colto e profondo.
Il tipo di estetica in questione è quello della dark academia, un’estetica, appunto, che celebra l’importanza dell’apprendimento, spesso d’élite, della cultura (specialmente classica) e del mistero. Come ogni estetica, si declina in molte forme: in architettura gli archi gotici vi si sposano alla perfezione, in letteratura libri come Il ritratto di Dorian Gray ne incarnano la poetica, mentre L’attimo fuggente ne è un ottimo esempio cinematografico. A fondare però davvero questo tipo di immaginario è stato proprio Dio d’illusioni. E molti libri successivi ne hanno pagato le conseguenze.
Il trope della scuola esclusiva, ricca ed élitariamente colta ha contaminato moltissime opere, così come l’insistenza su un’atmosfera di mistero e inquietudine, spesso ingiustificata. Bunny di Mona Awad ne è un ottimo esempio. Un libro carico di potenziale e con idee intriganti, che si arena però nel chiaro tentativo di rifarsi a un’estetica forzata (il titolo stesso richiama il soprannome di uno dei personaggi all’interno di Dio d’illusioni). Una parte di me spera di sbagliarsi, una grossa parte, ma non posso fare a meno di pensare che anche Le schegge, l’ultimo romanzo di Bret Easton Ellis, autore di capolavori come American psyco, si sia piegato a questa logica di mercato, patinando il suo titolo con tutta una serie di stereotipi narrativi assolutamente incongruenti con la sua abilità di scrittore.
Dico logica di mercato non a caso, il dark academia vende, e vedere una lunga serie di romanzi che sprecano il loro potenziale e la loro originalità in nome di una ricerca ossessiva di ciò che Donna Tartt ha fatto mi amareggia molto come lettrice. Inoltre, se almeno Dio d’illusioni avesse parlato di cultura in maniera concreta, avesse descritto personaggi più credibili ed effettivamente intelligenti, avesse rigettato parte della sua stessa estetica, forse allora potrei accettare con più serenità tutti i successivi tentativi di imitazione. Ma ciò che vedo è solo uno spasmodico tentativo di rendere tutto estetico al di fuori, senza nulla che colmi l’interno e, soprattutto, di scambiare la presunzione con l’intelligenza.