DIPENDERE DA

Il peso di Liz Moore, edito da NNE, si presenta come un testo lineare, ed effettivamente è tale
da condurre il lettore per mano nei meandri della vita di Arthur Opp e Charlene Turner, salvo poi
lasciare che siano proprio le vicissitudini delle loro vite a prendere forza fino a scontrarsi con
l’epifania del loro venire ad essere. Ed è così che la linearità della narrazione sembra cedere il posto
alla suspense, al fiato corto, all’improvvisazione, all’inaspettato, e tutto diventa un lento e
continuativo intrecciarsi, arrovellarsi, susseguirsi degli strati di un racconto presentante i tratti
angoscianti di due personaggi incapaci di declinare la propria vita in un modo diverso da quello della
dipendenza da qualcosa. La psicoterapeuta Stefania Andreoli una volta ha detto – parafraso – che per
soli cinque minuti di felicità estrema qualcuno è disposto ad accettare l’inferno dato dalle
conseguenze della dipendenza. E, a voler essere onesti, chi non baratterebbe qualcosa della propria
estenuante quotidianità per cinque minuti di pura, leggera, incoscienza? Almeno una volta ogni tanto,
intendo.
Il libro Come piombo nelle vene di Helen Garner, edito dalla casa editrice Nottetempo, è forse
in questo senso ancora più emblematico di quanto possa esserlo il testo di Moore. Garner è infatti
capace di descrivere sapientemente la difficile situazione di Nora, madre di Grace e destabilizzata
dalla presenza di Javo, il quale compare nella e scompare dalla comune di artisti in cui i medesimi
vivono un equilibro costantemente precario. Mentre Nora cova una dipendenza da Javo, quest’ultimo
delinea la propria vita all’insegna della ricerca e della somministrazione di eroina. L’intero libro si
gioca su un convulso protrarsi di dipendenze e fragilità da cui sembra impossibile liberarsi, e nel
mentre Grace si ritrova sballottata da una situazione ad un’altra, da un riferimento maschile ad un
altro. Dal libro di Moore non traspare questo tachicardico tira e molla, eppure la dipendenza c’è,
anche se prende la forma di un tira e molla più disteso, meno frenetico. Non c’è il reale tentativo da
parte dei personaggi di porre fine alle loro abitudini, cosa che invece cercano di fare i personaggi di
Garner, in preda a impietosi stati di febbrile eccitazione durante i quali vorrebbero dimostrare di saper
prendere in mano le redini delle loro inconsistenti esistenze. Perché dipendenza è anche questo: è
anche una speranzosa alternanza di fasi di lucidità a momenti di euforica ebbrezza in cui ci si illude
di poter fare a meno di quei cinque minuti di passione di cui parla Andreoli. E non è che Arthur e
Charlene non tentino, ogni tanto e timidamente, di dare un taglio al loro modo di toccare con mano
la felicità, ma lo fanno in punta di piedi, come fossero già consapevoli che i loro passi porteranno ad
un ennesimo, clamoroso, insuccesso. E questo lo sa anche Kel, figlio di Charlene, che crede di potersi
dividere tra casa e allenamenti di baseball solo per essere sicuro di riuscire a controllare la madre.
Si tratta di due libri che affrontano lo stesso argomento sotto prospettive diverse e con fini
diversi, cercando di mettere in luce gli aspetti della convivenza con se stessi e dell’instaurazione del
rapporto con gli altri attraverso la lente d’ingrandimento dell’insicurezza e del senso di
insoddisfazione e disfatta personale, che non possono far altro se non legarsi come macigni alla
caviglia di chi si sente fuori luogo. Per il tramite della sapiente prosa letteraria di Garner e della mano
scattante di Moore, potrete essere catapultati in dimensioni di oblio e negazione, disilluse ambizioni
e pressanti ricordi.

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