FONTANA, BURRI E LA MANIPOLAZIONE DELLA MATERIA

La meraviglia della natura umana risiede nella preziosità di ogni individuo. In questo senso, l’espressione artistica singolare è uno dei mezzi privilegiati per scoprire l’indole di qualcuno o per far emergere la propria. In particolare, non cessa mai di affascinarmi il modo in cui, pur sviluppandosi a partire dai medesimi concetti, diverse ricerche artistiche rivelino necessariamente le diversità così umane e tangibili dei propri artisti. Lucio Fontana e Alberto Burri, due dei più grandi artisti del Novecento italiano e mondiale, sono uno splendido esempio di una simile diversità.

Entrambi gli artisti hanno imperniato il proprio percorso professionale sul concetto di spazialità e di materia, spingendosi oltre i confini del realismo e manipolando materiali in composizioni inedite e rivoluzionarie. Tuttavia, i loro background formativi, insieme alle loro esperienze di vita personali, emergono dalle loro opere e ricalcano le peculiarità di due artisti entrambi innamorati dello spazio.

Lucio Fontana è diventato uno degli artisti contemporanei più conosciuti grazie ai suoi famigerati “tagli”, una serie di opere che nella realtà risponde al nome di “Concetti spaziali” e che corrisponde a uno degli ultimi archi creativi della sua carriera. Bucando fisicamente la tela e lasciandola nuda e aperta (operazione tecnicamente molto sofisticata e, contrariamente all’immaginario comune, difficilmente riproducibile) l’artista italo-argentino esprimeva il suo entusiasmo verso una dimensione spaziale del tutto nuova e ancora inesplorata nel mondo dell’arte. Non a caso si parla di “rivoluzione spazialista”. Era ora possibile riflettere su quello che la tela era davvero, un supporto intriso di potenzialità e futuro, da sempre cangiante nelle sue manifestazioni e per questo intrinsicamente “aperto” su una moltitudine di altre dimensioni.

L’operazione di taglio o bucatura non fu che l’approdo finale della ricerca artistica di Fontana, ma egli non mancò di riflettere a lungo sulla materialità in sè. Opere antecedenti mostrano composizioni solide e concrete, risultati dell’unione dei materiali più disparati. Il fulcro però fu sempre quello di un grande ottimismo nei confronti delle potenzialità artistiche dello spazio e il pensiero di Fontana tese a soffermarsi sulla stimolante vivacità del supporto artistico, mutevole come pasta di vetro (uno dei materiali usati dall’artista) al cambio della luce.

Nella carriera di Alberto Burri questo stesso ottimismo viene a mancare. Rispetto a Fontana, formatosi all’Accademia di Belle Arti di Brera, Burri non aveva una preparazione artistica accademica alle spalle ma anzi si era laureato in medicina. La scelta di dedicarsi all’arte giunse infatti in seguito al suo internamento presso il campo di prigionia di Hereford (Texas), un’esperienza drammatica durata 18 mesi in seguito alla sua cattura nel Nord Africa da parte delle Forze Alleate. La prigionia fu per Burri un’esperienza così traumatica da catalizzare la sua futura ricerca artistica verso la materia più grezza e umile dal quale era stato circondato per un anno e mezzo. Sacchi di juta, materiali vinilici e plastici, pezzi di legno, oggetti in ferro e perfino catrami diventano i mezzi, ma soprattutto i soggetti delle opere di Burri, che interviene su di essi lasciandovi tracce e segni. Sono in molti ad aver attinto dall’esperienza medica di Burri e ad aver visto in queste operazioni delle analogie con dei punti di sutura, delle cauterizzazioni o delle incisioni chirurgiche.

Le opere dell’artista sono concrete e quasi cadaveriche ed esprimono uno studio profondo e carico di emotività su ciò che la materia è e può diventare, così come sullo spazio che essa occupa. Un concetto simile, seppur opposto nel suo significato, a quello di Fontana.

Per entrambi questi artisti immortali spazio e materia sono i compagni imprescindibili di una vita dedicata all’arte, su cui però essi hanno lasciato impresse le loro personali visioni, regalandoci opere intime e corali allo stesso tempo.

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