IL FOLLE VOLO DI ULISSE

[…] Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza”.

Questo è un estratto del canto XXVI dell’Inferno. Qui Dante si trova, insieme alla sua guida Virgilio, nell’VIII Bolgia, dove risiedono i consiglieri fraudolenti, tormentati dentro lingue di fuoco. Dante nota una lingua biforcuta e Virgilio gli spiega che si tratta di Ulisse e Diomede; il sommo poeta è desideroso di poter parlare con loro, ma la sua guida glielo impedisce preferendo che sia lui a porgere la domanda che tanto sta a cuore a Dante.

La narrazione che Ulisse dà nell’Inferno è un racconto sconosciuto a coloro che hanno letto l’Odissea: l’eroe omerico, una volta ritornato a casa a Itaca dopo vent’anni in mare, venne talmente mosso dal desiderio di una maggiore conoscenza da ripartire per il mare. Viaggiò verso ovest attraversando nuovamente tutto il Mar Mediterraneo fino ad arrivare alle Colonne d’Ercole, che oltrepassò. Si diresse poi verso sud, mantenendo sempre la costa africana alla propria sinistra e, quando ormai aveva già raggiunto l’Emisfero Australe, ecco apparirgli davanti la montagna del Purgatorio. Egli e i suoi compagni non ebbero neanche il tempo di rallegrarsi che furono immersi nel vortice dell’Inferno all’interno del quale morirono.

Questo personaggio è diverso rispetto a quello narrato da Omero: la persona che combatte a Troia per dieci anni e impiega altrettanto tempo per tornare a casa aveva come fine ultimo tornare dai propri cari. Infatti, Ulisse avrebbe avuto numerose opportunità per interrompere il proprio viaggio e arrendersi, ad esempio presso la maga Circe, che si innamorò di lui, o ancora presso Calipso, che gli donò l’immortalità.

A Dante, tuttavia, non interessa Ulisse per i viaggi compiuti e le imprese eroiche dalle quali è uscito vincitore. Egli intende rimodellare questo personaggio come esempio di hybris, ovvero come colui che supera i limiti imposti da un’autorità superiore per cercare di ottenere una maggiore conoscenza del mondo. Possiamo anche ritenere che l’Ulisse dantesco non sia l’unico esempio di hybris; un altro personaggio mitologico che pecca della cosiddetta “tracotanza” è Prometeo, che ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini. La sua punizione? Viene legato ad una roccia e ogni giorno un’aquila gli mangia il fegato che di notte ricresce, facendo così ripetere questa tortura ogni giorno.

La prima volta che ho letto questo canto, istintivamente mi sono chiesta perché Ulisse fosse finito nell’Inferno. Certo, abbandonare nuovamente la propria famiglia dopo che si è stati assenti per vent’anni può essere considerata una scelta discutibile, però ha compiuto questa azione per un bene superiore, per una “maggiore conoscenza” (che comunque si sarebbe rivelata esatta tempo dopo grazie a Cristoforo Colombo). Poi mi sono resa conto che è proprio questo ciò che Dante vuol far emergere: la differenza fra scelta eticamente e moralmente corretta e scorretta. Al giorno d’oggi l’uomo ha raggiunto traguardi che fino a cinquant’anni fa sembravano quasi inimmaginabili, però tutte queste scelte si possono considerare eticamente e moralmente giuste, oppure no?

Alessia Ripamonti
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