Incontro con Khaled el Qaisi, studente italo-palestinese arrestato senza accuse nelle carceri israeliane nel 2023

 

Ingresso Palazzo Nuovo

 

16 maggio, esattamente un giorno dopo l’anniversario della Nakba. Sono le 16:15 e ci troviamo a Palazzo Nuovo. Nell’entrata principale c’è un infopoint al quale chiedo dove ci sarà l’incontro di oggi. Mi indicano l’aula e, quando varco le porte, mi addentro in un Palazzo Nuovo diverso, pieno di tende e di studenti, che convivono in un ambiente che sarà la loro casa per un bel po’ di tempo.

16:30, Aula Magna 3. Qui avrà luogo l’incontro con Khaled el Qaisi, uno studente italo-palestinese che è stato arrestato e detenuto nelle carceri israeliane senza alcuna accusa. Un paio di ragazzi preparano il set con un po’ di scotch per attaccare la bandiera palestinese e uno striscione che dice “Università in lotta per la Palestina”; il sottofondo musicale è arabo. 

16:57, l’incontro sta per cominciare. Colpi sul tavolo e grida di “Palestina libera”, “Netanyahu assassino” inondano l’aula e riscaldano l’ambiente. Dopo un’introduzione nella quale si parla delle mobilitazioni e della guerra, Khaled dà il suo punto di vista sull’argomento. Sottolinea l’importanza delle proteste e di non trattare quella palestinese come “una questione prettamente umanitaria”, di non svuotarla di contenuti politici.

Per inserirsi al meglio nel contesto: Khaled el Qaisi è nato e cresciuto in Palestina e vive in Italia da poco più di dieci anni. Ha la doppia cittadinanza, perchè la madre è italiana e il padre palestinese. Giá da quando lui abitava lì, la situazione era critica. Israele ha potere su tutta la vita dei palestinesi, da chi entra o esce dai suoi territori al controllo dei certificati di nascita o l’accesso alle risorse: “Non è consentito nemmeno raccogliere l’acqua piovana”, dice.

Torniamo alla scorsa estate: 31 agosto 2023. Khaled el Qaisi ritorna insieme alla moglie e al figlio a Betlemme, la sua città natale. Per raggiungere l’Italia, prima devono salire in Cisgiordania, passando attraverso la frontiera con la Giordania (i palestinesi non hanno accesso agli aeroporti senza passare tramite altri paesi limitrofi). In questo percorso, vengono fermati alla frontiera, precisamente al valico di Allenby. Vengono portati in una sala d’attesa dove gli chiedono documenti ed effetti personali. Ad un certo punto, lui viene ammanettato e trasferito all’interno di un ufficio della polizia di frontiera israeliana e trasferito in una sala interrogatori, di cui non verrà a sapere l’esatta posizione per diversi giorni.

In questo luogo sconosciuto, che si trovava a sud di Tel Aviv, cominciano la pressioni fisiche e psicologiche e le costanti interrogazioni. Tutto è studiato “scientificamente” per ottenere il maggior numero di informazioni possibili, per piegare la volontà del detenuto e spingerlo a rilasciare dichiarazioni scomode, facendole passare come spontanee. Dal ‘99 la tortura è proibita in Israele a favore di metodi che vengono definiti come “moderata pressione fisica e psicologica”. “In realtà sono metodi di tortura anche quelli”, racconta Khaled.

“La prima pratica è quella di creare l’ambiente più ostile possibile”. Il detenuto viene isolato in una cella di 1,5m x 1m che ha soltanto un materassino e un buco per terra per fare i bisogni. Le luci sono accese 24 ore su 24 e non ci sono finestre. Tutto questo rientra all’interno di una pratica conosciuta come “deprivazione sensoriale”. Così si perde il contatto con la realtà, la capacità di gestire e valutare le cose razionalmente e la cognizione del tempo. “Sono tante piccole cose che inizialmente sembrano irrilevanti, ma a lungo andare cominciano a ripercuotersi sul detenuto” .

In tutto questo mese, Khaled el Qaisi viene interrogato per ore su una sedia bombata con le gambe anteriori tagliate. Le sue mani sono ammanettate a questa sedia pendente, la cui scomodità lo pone ,dal primo minuto, in una situazione di forte stress psicofisico. Tutto ciò senza avere nessun tipo di contatto con l’esterno, neanche con un legale. Gli dicono che questa situazione potrebbe terminare in qualsiasi momento se solo si decidesse a collaborare. Gli fanno credere che quello che sta subendo è esclusivamente colpa sua . Gli fanno credere che vale la pena rischiare di passare un anno o due in carcere per poter uscire da quelle condizioni disumane, per vedere un po’ di sole. La percentuale di confessioni all’interno di queste strutture è  di “più del 95%”, afferma l’italo-palestinese.

Passato quel mese, la procura israeliana è obbligata a fare una scelta. Se non ci sono elementi sufficienti per formalizzare le accuse, il detenuto dovrebbe essere rilasciato. Invece, così non accade perchè Israele ha un altro piano di riserva: la detenzione amministrativa, un regime detentivo con cui si può essere condannati senza una formalizzazione delle accuse per ragioni di sicurezza o di “prevenzione del terrorismo”. La sua durata può essere indefinita e, di solito, si revisiona la condanna ogni 6 mesi.

In questi luoghi terrificanti ci sono anche minorenni. Khaled ne ricorda specificatamente due, di 15 e 16 anni rispettivamente, che sono stati sottoposti alle sue stesse condizioni disumane.

Ci sono altri elementi con cui i suoi detentori fanno pressione, come quello riguardante i familiari. Per esempio, se un parente ha bisogno di un permesso di transito per cure mediche, si minaccia che venga revocato o, direttamente, si arresta quel parente senza dargli accesso alle cure necessarie. Nel caso di Khaled, due dei suoi cugini sono ancora in carcere senza alcun tipo di accusa. Hanno avuto il primo rinnovo e passeranno almeno un anno in detenzione amministrativa.

1 ottobre. Il tempo di 30 giorni permesso dalla legge per tenere Khaled prigioniero nel centro interrogatori era finito e la procura non aveva elementi per formalizzare delle accuse. C’era il pericolo della detenzione amministrativa, ma la sua doppia nazionalità, le mobilitazioni in Italia e la ripercussione mediatica del suo caso fanno sì che venga rilasciato.

Mentre tutto questo succedeva, gli studenti della Sapienza, la madre e la moglie si mobilitavano per fare pressione sul governo italiano e liberare Khaled. “Quello che dovrebbe essere un minimo di garanzia è in realtà un privilegio”, dice lui.

“Si sa di almeno 40 prigionieri da ottobre ad oggi uccisi nelle carceri israeliane sia per negligenza ,che per torture”, “Da marzo ad oggi non abbiamo più notizie sui numeri” . Non si sa il numero di detenuti e di prigionieri di Gaza nelle carceri israeliane o nei campi di prigionia che non vengono dichiarati. Oggi, chi è arrestato come lui, non ha la stessa fortuna. La situazione è più cruda e la loro integrità è a rischio.

Khaled ringrazia tutti per averlo ascoltato e passa la parola a Mjriam Abu Samra, ricercatrice e attivista italo-palestinese, che dà qualche parola di speranza. Ci chiede di imparare dalle lezioni che la situazione a Gaza sta cercando di insegnarci, di continuare a lottare, di non lasciare che questo diventi una sorta di moda o che finisca nel dimenticatoio, che non sia “uno di quei movimenti che rimangono nella storia per aver portato 5 minuti di speranza, ma che poi si perdono in quella che è la narrativa mainstream”.

Queste parole ci ricordano, in un momento di forte tensione nell’università, l’importanza delle mobilitazioni, di fare qualcosa. Se Khaled è oggi in Italia è anche grazie a ciò. 

 

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