Quando ci si approccia a un’opera narrativa, che si tratti di romanzi, film, fumetti o di ogni altra forma espressiva, si sigla un patto inconscio con il o con i suoi autori. Aprendo le pagine o schiacciando il pulsante play sul telecomando stiamo acconsentendo a riporre la nostra emotività, così come i nostri processi logici, nelle mani di un perfetto sconosciuto. L’evasione, necessariamente garantita solo dalle opere di finzione, deriva dalla cosiddetta “sospensione dell’incredulità”, un concetto sviscerato fin dai tempi di Aristotele ma definito ufficialmente molto più tardi dall’autore romantico inglese Samuel Taylor Coleridge, all’inizio del 1800. In parole povere, si tratta di un processo attraverso il quale lo spettatore (o il lettore) seppellisce l’ascia della critica e si abbandona a una storia immaginaria, anche impossibile nel mondo “reale”, per trarne un puro godimento. È su queste basi che si costruisce la nostra empatia verso i personaggi o, proprio per essere prosaici, la nostra capacità di assistere senza batter ciglio a scene traboccanti di draghi, di dialoghi poetici ma forse un po’ improbabili o di gesta eroiche un tantino esagerate. Nessuno si sognerebbe mai di criticare un film di Michael Bay per i suoi meteoriti fatti esplodere da trivelle o per i suoi robot alieni, così come sarebbe impossibile disdegnare Wes Anderson per i suoi hotel un po’ troppo simmetrici. Senza però analizzare casi così specifici che si riconducono a vere e proprie cifre stilistiche, è sufficiente dire che una storia non può funzionare senza qualcuno che ci crede e che per crederci sia necessaria ciò che lo stesso Coleridge definiva “fede poetica”. Insomma, una buona dose di fiducia. Fiducia che può benissimo essere tradita.
Il narratore esercita sullo spettatore un potere più grande di quanto questi possa immaginare e, dopotutto, è ciò che rende la narrativa così interessante. Colpi di scena, tradimenti e intrighi sono ciò che permette di esorcizzare la noia e di creare un legame appassionante con il racconto. Ma può succedere che l’autore scelga di prendersi gioco del fruitore delle sue opere senza un motivo apparente, quasi fosse un piccolo sfizio. Entra qui in gioco un espediente narrativo atipico, imprevedibile e, diciamo, a tratti fastidioso. Si tratta del MacGuffin, uno strumento di scrittura che porta in scena un elemento fondamentale ai fini della storia, ma che per lo spettatore è completamente inutile. Si tratta dell’opposto delle pistole di Čechov: se secondo il romanziere russo una pistola mostrata in una scena deve necessariamente sparare in una successiva, per Hitchcock, il regista folle e creatore del concetto, il MacGuffin non è altro che una pistola inquadrata o descritta più e più volte ma che, contrariamente a quanto viene fatto credere, non sparerà mai. Il MacGuffin non è altro che il motore della storia, l’espediente che ne permette lo sviluppo e intorno al quale ruotano tutte le vicende narrate ma che nel concreto non si traduce in niente e resta sospeso davanti agli occhi di chi guarda. Lo stesso Hitchcock si è occupato di descriverne il concetto nel libro-intervista di François Truffaut “Il cinema secondo Hitchcock”:
«Si può immaginare una conversazione tra due uomini su un treno.
L’uno dice all’altro: “Che cos’è quel pacco che ha messo sul portabagagli?”
L’altro: “Ah quello, è un MacGuffin”
Allora il primo: “Che cos’è un MacGuffin?”
L’altro: “È un marchingegno che serve per prendere i leoni sulle montagne Adirondack”
Il primo: “Ma non ci sono leoni sulle Adirondack”
Quindi l’altro conclude: “Bene, allora non è un MacGuffin!”
Come vedi, un MacGuffin non è nulla.»
Questa “definizione” così suggestiva si concretizza al meglio in uno dei capolavori del cinema thriller-horror dello stesso regista: Psycho. Il film si mette in moto grazie alla protagonista che, nelle prime scene, ruba 40.000 dollari e li nasconde in una busta posta più e più volte a favor di camera. Per evitare la cattura, la donna cercherà di coprire le sue tracce affittando una stanza in un motel, luogo dove si consumerà il resto della trama. Della busta nessuno parlerà più. Se è vero, dunque, che è la busta stessa a mettere in moto l’intera storia, è altrettanto vero che il suo ruolo si limita a questo: null’altro che una piccola spintarella.
Un altro caso ancora più didascalico è quello della valigetta misteriosa all’interno di Pulp Fiction, il celeberrimo film di Tarantino. Tarantino è forse uno dei registi contemporanei che più fa affidamento sulla sospensione dell’incredulità. Davanti ai suoi film, siamo pronti ad accettare come perfettamente credibili massacri di ninja a opera di Uma Thurman e più in generale scene di una violenza talmente atroce da risultare quasi cartoonesche. Se Will Coyote impiega tre buoni secondi prima di cominciare a precipitare in un canyon, Django può benissimo fare strage di intere orde di schiavisti tutto da solo. Come ha dichiarato (o meglio, urlato) lo stesso Tarantino: “It’s fuuuuuuun!”. È divertente, nulla di più.
Pulp fiction è una pellicola che fin dal titolo lascia intuire la sua follia e la sua assurdità, senza pretendere una particolare decostruzione. Forse anche per questo il MacGuffin al suo interno è talmente palese da diventare frustrante. La valigetta intorno a cui gravitano tutti i protagonisti è piena solo per i personaggi, ma resta svuotata di significato per gli spettatori. Possiamo solo immaginarne il contenuto, ma alla fine non è nemmeno così importante.
Inaspettatamente, opere molto più classiche possono offrirci altri esempi stimolanti. In Madame Bovary, tutto l’arco introduttivo del romanzo è dedicato a Charles Bovary, futuro marito della ben più celebre protagonista. Flaubert si dilunga nella descrizione della sua infanzia, nei dettagli delle sue, scarse, ambizioni e fornisce al lettore ogni minuzioso particolare sulle sue nozze con Emma, la vera protagonista della storia. È su di lei che si sposta l’attenzione dello scrittore subito dopo il matrimonio, che all’interno del libro è servito da rampa di lancio per la presentazione in pompa magna di quello che, in fondo, è quasi assimilabile a un personaggio secondario. Lo scopo della descrizione di Charles non è quello di porre le basi per le sue gesta future, bensì quello di far risaltare l’abisso incolmabile che lo separa dalla ben più vigorosa Emma. Se per Charles «l’universo non oltrepassava il serico giro della sottana della moglie», quest’ultima è un’avida e romantica sognatrice. Charles non è che uno stratagemma per introdurla.
Per quanto forse sia azzardato parlare di MacGuffin, è indubbio che Flaubert abbia messo in moto un eccellente meccanismo per ingannare l’ignaro lettore che, molto probabilmente, è ben felice di passare dal noioso Charles alla sanguigna Emma.
Infine, per chiudere il cerchio, ritengo di grande interesse parlare di come il concetto protagonista di questo articolo si possa adattare a un prodotto della cultura pop contemporanea che ha la sfortuna di appartenere a un filone di opere molto spesso messe in secondo piano rispetto ad altre forme artistiche “più nobili”.
One piece è un manga di proporzioni mastodontiche scritto da Eiichirō Oda. Comparso nel 1997, ad oggi è ancora in corso, vanta 108 volumi, più di 1000 episodi animati ed è il manga più venduto della storia con all’incirca 521 milioni di copie in circolazione. La trama è quella di un classico shonen, con personaggi via via sempre più potenti e archi narrativi progressivamente più epici che costruiscono una vera e propria epopea. L’origine della trama però è semplicissima: in un mondo popolato da pirati, il sogno di ogni vero avventuriero è quello di trovare il leggendario tesoro, il One piece, nascosto da Gold Roger che, anni prima, ha esortato tutte le ciurme a intraprendere la sua ricerca. Ricerca parecchio lunga, dato che in 30 anni nessuno lo ha ancora trovato.
Le speculazioni in merito alla natura del One piece impegnano i fan della serie da decenni ma fintanto che non sarà l’autore stesso a rivelarla si tratta solo di supposizioni. Tuttavia, è risaputo che l’opera stia giungendo ormai a un termine e che manchi sempre meno alla scoperta del vero contenuto del tesoro. Ma la domanda è: il One piece è davvero così importante? Dopotutto, dopo anni di avventure, trame e sottotrame fittissime, combattimenti epici, evoluzioni mitiche dei personaggi e viaggi interminabili sarà davvero il tesoro a dare un senso all’intera opera? Non voglio ridurmi alla morale de “l’importante è il viaggio”, ma non posso fare a meno di pensare che nulla potrà mai essere sufficientemente prezioso per giustificare l’epopea che One piece è stato ed è tuttora per milioni di fan. In fondo, il One piece potrebbe anche non esistere.
Al pari dei dibattiti che infiammano Internet da anni, le mie non sono che supposizioni, ma, mentre come tutti sto aspettando la rivelazione finale, mi piace scommettere sull’esistenza di un “MacGuffin di Schrödinger” per il quale il One piece non è che l’espediente narrativo che ha messo in moto una delle storie più iconiche di sempre e ha galvanizzato decine di milioni di lettori. Al pari della mia incredulità, sospendo il mio giudizio e lo rimetto nelle mani di Eiichirō Oda che, per quanto mi riguarda, immagino come l’uomo più stressato del mondo.
L’ARTE DELLA DISTRAZIONE: IL MACGUFFIN COME ESPEDIENTE NARRATIVO
