MA VIRGINIA WOOLF COSA AVREBBE PENSATO DI ANNA PEPE?

Anna Pepe è la nuova regina indiscussa del rap italiano. Con l’album “Vera baddie”, uscito il 28 giugno 2024, la rapper ha scalato le classifiche di Spotify e da allora continua a collezionare ascolti vertiginosi abbinati a live affollatissimi. In un’industria a stragrande predominanza maschile come quella del rap, l’emergere di una figura dall’estetica così vivace e graffiante permette non solo di ritagliarsi una bella fetta di mercato (e di regalare una hit dopo l’altra), ma apre anche la strada a una serie di riflessioni che, ovviamente, non possono tralasciare le questioni di genere. Che una donna così giovane riesca a raggiungere un simile successo in un panorama carico di testosterone per antonomasia provoca certamente uno scossone. Tuttavia, è sempre importante guardare non solo al genere (vero e proprio) della novità, ma anche al messaggio di cui si fa portavoce.

Il personaggio di Anna è complice di un’estetica che, in parte, si rifà ai primi dieci anni del 2000, fatta di rosa, unghie lunghe ed Hello Kitty, tutte caratteristiche iperfemminili e lontane, dunque, da una demonizzazione della femminilità stessa. Per quanto possa sembrare un dettaglio banale, una simile presa di posizione coincide con la riappropriazione di quei beni di consumo o, più in generale, di tutti quei dettagli estetici tipicamente femminili a lungo demonizzati. In un mondo patriarcale in cui la donna è premio o preda, mai soggetto, a livello narrativo sono state intessute molte strategie per far sì che i personaggi femminili più ammirevoli e popolari fossero quelli che rigettavano una caratterizzazione fatta di gonne, trucchi, tacchi e rosa. In Sognando Beckham, film del 2002, le protagoniste giocano a calcio e non sono “puttanelle” come le altre, mentre in Twilight la protagonistaBella farebbe di tutto per tenersi stretta le sue Converse sotto il vestito per il ballo, sia mai indossare un paio di tacchi. Tralasciamo poi brani musicali a dir poco discutibili come Stupid girls di Pink, nome abbastanza ironico considerando il contenuto della canzone. Insomma, i primi anni 2000 si sono basati a lungo su un tipo di personaggio definito in seguito “strong female character”: ragazze “con le palle” (espressione terrificante), che preferiscono leggere al fare shopping e che sono diverse dalle “altre”. Se in origine queste rappresentazioni potevano essere considerate emancipatorie, ad oggi è evidente come non siano altro che demonizzazioni di una pluralità di espressioni di genere più che legittime, oltre che un modo più subdolo per codificare una femminilità conforme al gusto maschile del momento.

Anna invece è rosa, fa i tutorial per la lip combo migliore, ha le scarpe di Hello Kitty (e gli sticker di Kuromi sulla carta di credito). Insomma, è una “cool girl” senza essere un maschiaccio. E spacca. Può bastare questo a renderla un simbolo di emancipazione? Purtroppo no.

Nonostante Anna abbia penetrato l’industria musicale con un vortice di femminilità e pezzi da record, è difficile conciliare il suo essere un’artista con l’apostrofo con un effettivo messaggio femminista. Così come è difficile conciliare brani come MISS IMPOSSIBLE, in cui si parla in maniera anche abbastanza cruda di amori tossici e violenza domestica, con i ritornelli di Everyday, dove rimbomba la frase “Io ti ammazzo solo perché parli con lei”.

Allo stesso modo, frasi come “Ho provato a avere amiche, ma/Tutte le girls infamano” sono veramente amare da mandar giù, soprattutto se inserite all’interno di canzoni di estremo successo come TT LE GIRLZ. Proprio questo esempio è uno dei più rilevanti, perché contraddice tutta la retorica riportata in precedenza sulla riappropriazione della femminilità e lo scardinamento degli stereotipi sessisti. Pronunciando una simile frase, il messaggio che Anna sta lanciando è esattamente l’opposto: è un ritorno a un mondo di uomini per uomini, a uno scenario musicale in cui gli artisti trattano le donne alla stregua di feticci. Sembra, quindi, che essere un’artista in un mondo di uomini non basti. Anzi, la difficoltà sta proprio nel riuscire a inserirsi e a muoversi con abilità in un mondo di uomini senza conformarsi alle loro meccaniche di potere, alla mentalità misogina o anche, più semplicemente, ai loro gusti di mercato. Più facile a dirsi che a farsi, soprattutto quando il mercato lo comandano loro.

Lo scontro fra generi all’interno dell’industria dell’intrattenimento non è certo un argomento nuovo. Già Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé si occupava di tracciarne le difficoltà e le contraddizioni, concentrandosi proprio sugli ostacoli che una donna doveva, e deve tuttora, affrontare nello scegliere la sua cifra stilistica e la sua espressività. Un approfondimento di grande rilevanza è dedicato alla figura di Charlotte Brontë, autrice di Jane Eyre. Secondo Woolf, la scrittrice ha fallito nell’esprimere al meglio il suo potenziale perché tra le sue righe si legge un’attenzione vividissima verso il giudizio maschile e verso un’autorità invisibile riconducibile proprio al lettorE. Un problema, questo, non solo di Charlotte Brontë:

“Perciò l’intera struttura del romanzo del primo Ottocento veniva innalzata, quando l’autore era una donna, da una mente in qualche modo sfocata, costretta ad alterare la sua chiara visione, per condiscendenza verso un’autorità che le era estranea. Basta sfogliare questi vecchi romanzi dimenticati, ascoltare il tono con cui sono stati scritti, per indovinare che la scrittrice sta pensando ai critici; che dice questo per essere aggressiva e quest’altro per essere conciliante. Riconosce di essere ‘soltanto una donna’; oppure protesta di essere ‘uguale all’uomo’. […] L’autrice aveva voluto alterare la sua scala di valori, per condiscendenza all’opinione altrui”.[1]

Essere una donna, dunque, significa sapere di essere sottoposta a un rigido e meticoloso esame maschile, soprattutto in settori che maschili lo sono sempre stati (quindi più o meno tutti).

Davanti a questa scomoda realtà si possono opporre reazioni diverse. Da un lato, si può continuare a scrivere (sia romanzi che pezzi rap) dedicando però un occhio di riguardo al pubblico maschile. È questo, temo, ciò verso cui Anna sta propendendo, anche se in modo un po’ diverso da come lo intendeva Virginia Woolf. Anna non modifica i suoi contenuti per piacere di più agli uomini né ricalca il suo essere donna; semplicemente, mette in atto le stesse meccaniche del rap più classico, purtroppo molto sessista, e ciò rende molto controversa la possibilità di definirla un’icona di emancipazione o di rivalsa femminile. È vero, molte volte la stessa Anna ha dichiarato di essere ben consapevole di essersi dovuta fare strada in un mondo musicale di uomini, tanto da avere come ispirazione una delle prime rapper ad aver esordito sulla scena internazionale, Nicki Minaj. Eppure, nella sua scalata al successo sembra che tutte le problematicità di quest’industria così “maschia” non siano state messe in discussione, che Anna faccia rap “come un maschio”.

È proprio a partire da questo punto che si può distinguere un altro tipo di reazione: scrivere come le donne. Che, tradotto, vuol dire fregarsene. Woolf qui riporta un altro esempio di scrittrice immortale che non è caduta negli stessi tranelli di Charlotte Brontë, Jane Austen. La sua forza, secondo Woolf, risiede proprio nella sua totale noncuranza verso ogni tipo di pregiudizio o stereotipo che gli uomini le avrebbero potuto cucire addosso. In un’epoca in cui i romanzi erano cosucce triviali da donne, lei ne ha scritti una mezza decina a testa alta, rivendicandone con calma la portata. Il romanzo non l’ha inventato Jane Austen, così come le protagoniste femminili. Tuttavia, in un panorama bacchettone e, manco a ridirlo, maschile, lei ha imbracciato la sua penna, si è seduta nel salotto comune di casa sua (non aveva una stanza tutta per sé) e ha scritto di donne senza mai abbandonarsi a stereotipi o strategie messe in campo dagli uomini prima di lei. Ha fatto di testa sua.

Un simile atteggiamento è ciò che davvero corrisponde a una sincera emancipazione, anche se si riconduce in parte a un binarismo di genere che, però, è ancora ben lontano dall’essere scardinato. In un mondo di Charlotte Brontë e Jane Austen Anna Pepe è riuscita ad avvicinarsi solo alla prima che comunque, non dimentichiamolo, è una delle più grandi romanziere della storia. Manca ancora qualcosa però, un tocco che solo una vera Jane Austen riuscirà a dare. Non resta che vedere chi potrà occupare questa carica.


[1] Woolf, Virginia, Una stanza tutta per sé, Feltrinelli, Milano, 1928, p. 110.

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