“MENO DI ZERO” DI BRET EASTON ELLIS – DOVE SI SCOMPARE

Bret Easton Ellis ha scritto “American Psycho” e lo si ricorda per questo. Ma ha scritto anche “Meno di zero” e va benissimo che i suoi lettori (e spettatori, dato che ne è stato tratto un film nel 1987) siano molti meno. Lo dico solo per la loro incolumità.
“Meno di zero” comincia come il tipico romanzo americano sulla droga, la dipendenza e l’abbandono, sul niente assoluto e sulla perdizione, sulla passività al corso degli eventi. Eppure, a differenza di molte opere che si limitano a nascondere tra le righe lo sfacelo umano cui porta l’abuso di sostanze, oppure a rendere la narrazione talmente distaccata da impedire di empatizzare con i personaggi, Bret Easton Ellis prende per mano il lettore, lo fa accomodare su una comoda sedia e poi ve lo incatena e gli spalanca gli occhi come in “Arancia meccanica”.
Il libro è un incredibile esercizio di stile non tanto nella prosa ma nella struttura stessa del racconto. I capitoli sono brevi e ripetitivi, sospesi nell’afa appiccicosa di una Los Angeles di plastica e traboccante di disperati (in)consapevoli di esserlo. Sono giovanissimi, quasi bambini, ma hanno già siringhe nelle braccia, cocaina nel naso, qualuude (sì, quello di “The Wolf of Wall Street”) in corpo. I genitori non ci sono, quindi non si tratta di comportamenti trasgressivi e provocatori, ma solo di reazioni alla noia viscida che impregna Los Angeles come una cappa. È proprio questo il senso della prima metà del romanzo: la riproduzione della noia, la ripetizione costante degli stessi eventi sempre un po’ più disturbanti, più macabri. È un gorgo lento, un vortice allucinatorio che con una forza subdola e crescente attira protagonisti e lettori verso l’unica meta possibile: la sparizione. Non la morte, ma la distruzione completa di sé.
A Los Angeles si scompare e Bret Easton Ellis lo comunica fin dalle prime pagine. “Scomparire qui” è la frase che alita sul collo di Clay, il protagonista, per tutto il libro, sospesa come un monito sul giogo di un’intera città come il cartellone occhialuto de “Il grande Gatsby”. Didascalico, forse, ma inevitabile e imprevedibile nelle sue conclusioni. Le parole diventano un mantra sempre più compulsivo e sempre più pregno di significato, si concretizzano nell’occhio di un ciclone irresistibile che modello lo spazio fino a renderlo troppo ripido e vertiginoso. A quel punto si scivola giù come piccole biglie. La velocità della narrazione è direttamente collegata a questo principio fisico, perché le sue orbite si fanno via via sempre più strette e gli eventi cominciano a scorrere talmente in fretta da impedire a chi li vive, e a chi li legge, di metabolizzarli. È una scelta crudele e angosciante perché impedisce ogni tipo di reazione dopo aver scarnificato i protagonisti stessi privandoli della voglia, non solo della forza, di reagire. Tutto si trasforma in un vortice frastornante nella sua velocità e nauseante per il suo contenuto, con gli avvenimenti che si fanno sempre più disgustosi, nichilisti e atroci. Bret Easton Ellis tira lo sciacquone e lascia che tutto precipiti nelle fogne.
Il processo di autodistruzione indotta da una classe ricca incastonata in una società materialista è inarrestabile perché, checché dica Clay, il fondo non esiste. Se l’effetto della droga sparisce, la dipendenza resta; se la droga non basta c’è il sesso; se il sesso non è sufficiente si ricorre alla perversione e allo stupro; poi si tocca il fondo. Poi si scava.
L’estetica anni ’80 si percepisce nelle ambientazioni che con il tempo sono diventate il simbolo materiale di un intero decennio di opulenza. Ville moderne, vetrate gigantesche, club esclusivi e violacei e piscine azzurro elettrico diventano il teatro di una generazione troppo ricca per farsi problemi e troppo abbandonata a sé stessa per non ricercare ogni possibile modo di strangolare la noia. Solo le droghe, tutte le droghe, garantiscono parentesi di un’eccitazione simulata e artificiale che anestetizza i giovanissimi e trasforma i cadaveri in oggetti di interesse e gli incidenti stradali in spettacoli. La critica sociale risulta evidente ed estremamente toccante, anche perché il libro è stato scritto nel pieno del decennio consumista, nel 1985.
Non è certo il primo romanzo che parla di droga descrivendone lo sfacelo, ma di certo è uno dei più tragici e nauseanti. Si rischia il vomito più e più volte sia per ciò che accade nel concreto sia per ciò che esso significa. Bret Easton Ellis poteva essere triste e ansiogeno ma ha scelto di essere crudele e sadico nel mostrare la realtà, lo schifo e il degrado umano. È il suo modo di descrivere scenari visti e rivisti, ma a cui ogni autore può donare la sua cifra stilistica e la sua interpretazione.
Il già citato del “Wolf of Wall Street” fa di tutto per rendere le droghe l’oggetto del desiderio più accattivante che ci sia, insieme ai soldi. L’intera allucinogena opera di Palahniuk fa satira su tutto e tutti e dissacra non solo l’abuso di sostanze ma ogni singolo atteggiamento umano, nascondendo dietro esagerazioni ai limiti dell’assurdo (tanto da diventare divertenti) critiche profonde ma dispersive. Kerouac e Burroughs in “E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche”, scritto a quattro mani, usano le droghe come uno corollario scontato per la storia che raccontano, che non è nient’altro che un fatto di cronaca vera. Individualmente, scelgono strade diverse: se in “On the road” Kerouac si fa portavoce di un inno generazionale e poetico, in “Pasto nudo” Burroughs descrive solo strati su strati di allucinazioni nauseanti e sconnesse (Kerouac però lo considerava il miglior romanzo americano), mentre in “Junky” sceglie di confessarsi in modo lucido.
Ognuno ha il suo modo di vederla e di raccontarla e la droga diventa una pasta malleabile ricca di plurimi significati. In “Meno di zero” è la cosa peggiore che possa capitare. C’è un prima e un dopo questo libro e io lo sconsiglio a chiunque sia ancora traumatizzato da “Requiem for a dream” e a chi non voglia sentirsi sporco nel profondo. Bret Easton Ellis lo ha scritto a 21 anni, con gli occhi pieni di atrocità da incubo, e ha dato vita a un libro straordinario. Ma ripeto, non leggetelo. Lo dico per la vostra incolumità.

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