L’arte nasce per essere un linguaggio universale, ma al contempo senza codici inequivocabili per la sua interpretazione. La sua più potente arma è quella di saper smuovere le coscienze ed ecco perché, ciclicamente, subisce forti repressioni che sfociano nella censura.
Condannare un’opera, sappiamo tutti bene, equivale al venir meno della libertà d’espressione. Coprire una scultura, rimaneggiare un dipinto, epurare una canzone, tagliare alcune scene di un cortometraggio sono azioni utilizzate da tempo immemore dalle organizzazioni istituzionalizzate, ma non solo.
La censura, nel corso delle varie epoche storiche, ha interessato ambiti differenti dell’esistenza ed è stata legittimata da diversi organi di potere. Durante l’Inquisizione, la Chiesa l’ha impugnata spesso come arma, ma sarebbe da ipocriti affermare che se ne sia servita solo nel Medioevo.
La portata storica della censura è evidenziata anche dal fatto che sia un atto spesso giustificato dalla morale comune e che abbia saputo adattarsi anche alle nuove tecnologie, di social media sono un esempio perfetto.
Da quando si è diffuso l’utilizzo esteso delle piattaforme digitali, è anche dilagata l’idea che la rete possa rappresentare uno spazio in cui si è legittimati a dire e fare di tutto, insomma, uno spazio di libertà sconfinata. Ciò ha comportato, dunque, la necessità di regolare e filtrare i contenuti che vengono proposti agli utenti. Il tutto avviene tramite una combinazione tra algoritmi automatizzati e una moderazione umana che filtra in base a delle linee guida comunitarie, ovvero insiemi di regole che ciascuna piattaforma stabilisce per proteggere i propri utenti da contenuti ritenuti dannosi o non adeguati.
Questo tipo di censura si propone, quindi, di tutelare chi si ritrova a navigare sul web, ma non bisogna dimenticare che una buona parte dei contenuti eliminati corrisponde alle liste stilate da governi che esercitano pressioni sulle piattaforme per rimuovere contenuti critici o opposti all’ideologia dominante.
Bansky: un veterano delle censure
Non esiste un numero preciso di volte in cui Banksy è stato censurato, ma le volte in cui è stato rimosso un suo murales, soppressa un’immagine o distrutta un’opera sono innumerevoli.

Per citare l’esempio più recente, lo scorso 8 settembre, presso il Queen’s Building delle Royal Courts of Justice in Carey Street a Londra, è stato apposto un nuovo stencil ad opera dello street artist britannico. Il murale raffigura un giudice in toga con la tradizionale parrucca sul capo, intento a colpire, con il martelletto a funzione giuridica, un manifestante a terra che regge un cartello macchiato di sangue.
Non vi sono espliciti riferimenti, ma senza dubbio l’opera si rifà all’arresto di quasi 900 dimostranti durante la manifestazione contro la messa al bando di “Palestine Action”, organizzata da Defend Our Juries: un gruppo che si propone di far luce sulla crisi costituzionale nel Regno Unito.
La risposta delle istituzioni non si è fatta attendere e nel giro di poche ore lo stencil è stato oscurato da teli di plastica e da transenne, con l’ordine poi di rimuovere l’opera. Il 10 settembre è stata quindi disposta la rimozione per preservare l’edificio che ospita la Royal Court, in quanto si tratta di un bene storico-architettonico. Dietro questa decisione che porta con sé anche un’indagine per danneggiamento di proprietà pubblica, c’è però una storia di censura che di fatto non smentisce le accuse che l’opinione pubblica britannica addita alla repressione che continua ad esser messa in atto nel Regno Unito. Inoltre, a mio avviso, questa reazione era stata già prevista dallo stesso Banksy, motivo per cui la rimozione di quest’opera può essere inserita nel significato stesso del murales. E alcuni l’hanno anche capito e, infatti, mi ha colpito un messaggio di un utente via Instagram che, commentando la vicenda, ha scritto: “Pensa quanta paura può fare l’arte”.
Ai Weiwei: la censura sulla propria pelle
Ai Weiwei è un artista contemporaneo che gioca con tutte le forme d’arte caratterizzando ogni singola installazione con un forte impegno sociale e politico che gli vale, da anni, l’ostilità di molti Paesi, in primis la sua madrepatria: la Cina. Nel 2011, infatti, è stato arrestato dalle autorità cinesi e trattenuto per quasi tre mesi senza accuse ufficiali, poi formalizzate in evasione fiscale. Nonostante la sorveglianza e la censura, Ai Weiwei continua ad utilizzare la sua arte per sfidare le restrizioni imposte dalla Cina sui diritti umani e, in generale dalle nazioni occidentali, in termini di libertà di espressione.

Dropping a Han Dynasty Urn è una serie di fotografie, censurata in Cina, che raffigura lo stesso artista reggere, successivamente lasciar cadere un’urna funeraria appartenente alla dinastia cinese Han con una storia di oltre 2000 anni alle spalle, e infine stante davanti ai cocci. La performance, vivibile dallo spettatore grazie ai tre scatti fotografici, pone al centro il tema della memoria storica della Cina e può essere riletta come un’aperta critica alla rivoluzione culturale che aveva visto coinvolto anche il padre dell’artista e che si concretizzò in un tentativo radicale da parte di Mao Zedong di riprendere il comando effettivo dello Stato. L’opera sembra, infatti, rivisitare le parole dell’appena citato ex Presidente del Partito Comunista cinese: “L’unico modo per costruire un nuovo mondo è distruggere quello vecchio”.
