Avete presente il contest lanciato dal Collegio “#FrameYourEinaudi!”? Quello in cui si immortalano scorci di vita quotidiana, incorniciati da una cartolina che si può trovare in ogni reception di sezione?
Ecco, bene, se mai dovessi partecipare a questo concorso, direi che la mia vita degli ultimi due mesi si potrebbe riassumere con tutte quelle foto che immortalano le montagne di pentolame da lavare che puntualmente intasano la galleria del mio telefono.
Poi scatterei una foto alla lavanderia, quel luogo dove il popolo collegiale fa vedere il lato peggiore di sé.
Un’altra idea potrebbe essere un bel grandangolo di ogni componente del piano quando si è in sessione, per far emergere la nostra vera natura e sentirci meno soli.
A mio avviso, però, la scelta migliore sarebbe aggirarsi per la sezione con una vecchia macchina fotografica appesa al collo, un po’ come faceva l’artista americana Vivian Maier, e rubare quei momenti di normalità e convivialità che caratterizzano la vita di tutti i giorni.
Come un sorriso rubato tra due persone, la custode che si fuma la sua sigaretta mattutina, un ragazzo intento a stendere i vestiti perchè l’asciugatrice non ha fatto il proprio lavoro, un gruppo di amici che chiacchiera fino a tardi su un balconcino o una ragazza rannicchiata in aula studio che spera di concentrarsi.
Potrei continuare all’infinito, però sono sicura che si potrebbe fare di meglio. Ovvero, senza troppo sforzo, imitare delle opere d’arte!
LA NOSTRA IDEA DI ARTE POVERA – MICHELANGELO PISTOLETTO, “VENERE DEGLI STRACCI” (1967)
Possiamo dirci tutti colpevoli di abbandonare i nostri vestiti su una sedia della stanza. Finché quella montagna di tessuti diventa ingestibile e allora ci tocca prenotare una lavatrice o riordinare, almeno un minimo, la nostra camera.
Quella sedia sovraccarica mi ricorda un’opera di arte povera, realizzata nel 1967, dall’artista biellese Michelangelo Pistoletto. Si tratta della “Venere degli stracci” che ha come soggetti una statua da giardino, nonché copia della “Venere con pomo” dello scultore neoclassico Bertel Thorvaldsen, e un cumulo di stracci ed abiti usati.

L’accostamento che si viene a creare è tra una figura di spalle, candida, emblema di eterna bellezza e un’informe molteplicità di tessuti colorati, ormai considerati un rifiuto da scartare.
Di quest’opera ne esistono diverse versioni ed, in base al contesto, essa ha ricevuto diverse interpretazioni. Secondo alcuni si può intravedere una critica al consumismo e, mi permetterei di aggiungere, all’industria della moda; secondo altri la Venere potrebbe essere messaggera di una nuova tipologia di bellezza che porta il nome di “riciclo virtuoso” e che vede negli elementi di scarto una miniera di nuove potenzialità.
GENIO E SREGOLATEZZA – HENRY WALLIS, “LA MORTE DI CHATTERTON” (1856)
Durante il Romanticismo l’artista, o meglio il genio, è l’unico capace di accedere al sublime grazie alla sua estrema sensibilità. Quest’ultima, però, è un’arma a doppio taglio. Da un lato è fonte di originalità, d’altronde l’artista non raggiunge il successo tramite la copia o l’imitazione, bensì attraverso la creazione di nuovi contenuti; dall’altro è un amplificatore di ogni sentimento. Il genio si sente spesso incompreso e un esempio è Thomas Chatterton, giovanissimo poeta inglese, che decise di levare la mano su di sé dopo che i suoi scritti erano stati rifiutati da un editore.

Wallis racconta il momento della morte; nella stanza londinese del poeta ci sono le sue poesie stracciate a terra, la boccetta di veleno, il suo corpo baciato dalla luce del mattino e l’intera scena è resa grazie ad un acceso chiaroscuro di gusto preraffaellita.
Quest’opera, svincolata dal suo significato tragico, mi ricorda la sensazione di quando si ritorna, dopo un esame, nella propria stanza completamente in disordine e la priorità è recuperare almeno una manciata di ore di sonno.
CUCINA DI PIANO, OLIO SU TELA – PAOLO VERONESE, “NOZZE DI CANA” (1563)
L’emblema del sovraffollamento è la sera in cucina, quando tutto il piano si ritrova a cenare e riuscire ad aggiudicarsi una delle otto piastre, per far bollire l’acqua o per ripassare in padella il tofu, diventa una sfida all’ultimo sangue. Parlando sempre di banchetti, gremiti di commensali, l’esempio che calza a pennello è la tela che si trova dinanzi alla “Gioconda” al Louvre. “Nozze di Cana” racconta non solo il miracolo di Gesù, bensì si tratta di un perfetto fotogramma di un banchetto veneziano della metà Cinquecento, dove tra gli oltre centotrenta personaggi spiccano alcuni contemporanei del Veronese, tra cui Tiziano e Tintoretto.

La scena è racchiusa entro un’architettura d’ispirazione classica e vede come protagonisti, non solo personaggi illustri, ma anche animali, intrattenitori e servitori, a cui viene riservata una particolare attenzione. È il caso del ragazzo in primo piano che mesce il vino.
Tutti, eccetto una donna a sinistra che rivolge il proprio sguardo verso l’esterno, sembrano assorti da quell’istante, alcuni conversano con il vicino, altri si spostano ed altri ancora si occupano della riuscita del banchetto.