SHAKESPEARE SI AFFEZIONA COSI’ TANTO AL CONCETTO DI ZERO CHE “ANNIENTA” GALILEO IN UNA GARA DI LOGICA

Shakespeare visse e scrisse alla fine del XVI secolo, in un periodo storico in cui molti nuovi concetti matematici stavano prendendo forma e rigore e stavano trasformando la percezione del mondo. Il ruolo degli artisti, dunque anche di coloro che facevano teatro, era quello di elaborare le implicazioni culturali di queste teorie. Le persone all’epoca erano già abituate all’idea di infinito, dei pianeti e dunque a rivolgere lo sguardo e l’attenzione verso “le cose grandi”, ma un po’ meno all’idea inversa, ovvero al molto piccolo o addirittura al nullo (o perlomeno non pensavano  potesse essere formalizzato).

Il primo uso inglese della parola “zero” risale infatti al 1598. Il matematico italiano Fibonacci contribuì a introdurre lo zero come “cifra” nella cultura scientifica del tempo, ma fu solo grazie a Descartes, Newton e Leibniz, i quali diedero le fondamenta del calcolo infinitesimale (tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo), che lo “zero” iniziò ad essere un importante oggetto di discussione nella società.

Basti pensare che lo scienziato Robert Hooke scoprì i microrganismi nel 1665, il che vuol dire che prima l’idea di vita a livello microscopico era solo una fantasia. In questo contesto  si cominciarono dunque a rappresentare concetti molto ampi con figure piccole, o nel caso specifico della matematica a standardizzare l’utilizzo di simboli quali la moltiplicazione, la radice, il decimale, che permettevano di rappresentare numeri di qualsiasi ordine di grandezza.

Questo dualismo grande/piccolo che si stava dunque affermando non poteva non diventare un  soggetto artistico, oltre che scientifico, di grande importanza e infatti , ad esempio,  Shakespeare colse da subito la sua grande rilevanza. Nella sua opera storica Enrico V, egli mostra il suo interesse per le proporzioni e il concetto di zero per bocca di Enrico V:

Oh, per una musa di fuoco, che ascendesse / al più luminoso cielo dell’invenzione: / un regno per palcoscenico, principi per recitare, / e monarchi per contemplare la scena in crescendo […] / possiamo stipare / dentro questo legno, oh, gli stessi elmi / che spaventarono l’aria ad Agincourt? / Oh, perdono: poiché una figura storta può / attestare in un piccolo spazio un milione, / e lasciaci, cifre di questo grande resoconto, / lavorare sulle tue forze immaginarie

Gli studiosi concordano sul fatto che la “figura storta” di cui si parla sia lo zero in realtà, anche se si tratta del numero meno storto a rigor di logica. Quando dice che “una figura storta può/ attestare in un piccolo posto un milione”, si riferisce al fatto che lo zero è in grado di trasformare 100.000 in 1.000.000; dunque un oggetto matematico così piccolo è in realtà capace di modificare numeri molto grandi. Usando le proprie “forze immaginarie” ,dunque, potrebbero derivare rappresentazioni teatrali molto più importanti. Questa metafora riappare anche nella tragicommedia “ Il racconto d’inverno” quando i numeri si trasformano in migliaia di grazie:

Come una cifra, / eppure stando in un luogo ricco, moltiplico / con un “Ti ringraziamo” molte altre migliaia / che lo precedono.

In altre parti della sua opera Shakespeare sfrutta le metafore matematiche per rappresentare situazioni della vita comune, come i momenti di crisi. In Troilo e Cressida, utilizza il linguaggio matematico per tracciare il crollo della stabilità mentale di Troilo, dopo aver assistito al flirt della sua amante Cressida con un altro uomo. Nella mente dell’uomo affranto, Cressida si disintegra in “frazioni”, “frammenti”. Per rispecchiare ciò, i versi di Shakespeare sono scritti in pezzi frastagliati, come il nome moderno delle frazioni: “numeri spezzati”.

Abbiamo dunque visto come le opere di Shakespeare hanno registrato la crisi della matematica classica del XVI secolo di fronte ad idee più innovative, ma diedero anche spazio al pubblico per venire a patti con questi nuovi pensieri e osservare il mondo attraverso la lente della matematica.

Visto che Shakespeare, come ogni uomo di cultura che si rispetti, ha osservato i cambiamenti nel mondo, li ha fatti suoi e li ha divulgati con la sua arte in tutto il mondo, ha tutta la mia stima e la mia ammirazione. Vorrei dunque concludere l’articolo di oggi, nel suo (quasi) 542esimo anniversario di matrimonio con la sua tanto amata Anne Hathaway ( non l’attrice, anche se so che avete visto le immagini che comparano Shakespeare al suo attuale marito 😉 ) mostrando come anche gli umanisti siano forti in matematica, o nel caso specifico in logica, e di come possano battere matematici affermati del calibro di Galileo Galilei. La sfida è sul “modus tollens”, ossia la regola della logica matematica che spiega il corretto modo di negare una affermazione (es. Se piove allora la strada è bagnata”, si nega in “Se la strada non è bagnata allora non piove”, ma attenzione non si può dire “Se non piove la strada non è bagnata” perché potrebbe esserlo per altri motivi!).

Galileo fece un errore grossolano tentando di dimostrare a tutti i costi la validità del sistema Copernicano. Si sapeva infatti che :” Se il sistema planetario è eliocentrico allora Venere presenta le fasi”.

Galileo argomentò in questo modo:” Venere presenta le fasi, dunque il sistema è eliocentrico”. ERRORE, Galileo non conosceva (o forse faceva finta di non conoscere) il concetto di biunivocità. Egli avrebbe dovuto dire invece: “ Se Venere non presentasse le fasi allora il sistema planetario sarebbe non eliocentrico, ma siccome le presenta non posso dire nulla”. Shakespeare invece utilizzava il “modus tollens” come se niente fosse e mostra a tutti la sua bravura nel Riccardo III, scrivendo un verso a tratti anche divertente :

“Anche la bestia più feroce conosce un minimo di pietà. Ma io non ne conosco, perciò non sono una bestia!”.

E con questo flex assurdo Galileo: 0, Shakespeare: 1. Tra l’altro questo punteggio poteva scriverlo anche Shakespeare per quanto abbiamo detto sopra!

E con la rivalsa degli umanisti vi saluto, alla prossima!

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