A quale evento pensereste se vi dicessi che in una soleggiata giornata italiana del 2001, durante una manifestazione del movimento No Global, centinaia di manifestanti pacifici sono stati brutalmente manganellati dalle forze dell’ordine? Se vi dicessi che molti di questi manifestanti sono stati portati in una caserma in cui hanno subito torture, abusi, umiliazioni e violenze sessuali? E che i poliziotti che hanno commesso questi atti sono rimasti tutti impuniti? Sicuramente la risposta più ovvia a queste domande sarebbe il G8 di Genova, uno dei più grandi fallimenti della democrazia occidentale negli ultimi venticinque anni, ma oggi voglio parlarvi di un evento che si svolse pochi mesi prima: il Global Forum di Napoli.
Dal 15 al 17 marzo 2001 venne organizzato a Napoli il Global Forum, promosso dall’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) in concerto con le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la Banca Mondiale. Questo incontro, apparentemente secondario, fu il banco di prova per il G8 di Genova che avrebbe avuto luogo quattro mesi dopo.
Il cosiddetto “popolo di Seattle”, nato in seguito alle contestazioni del ’99, si espanse notevolmente nei due anni successivi. Questo movimento si allargò a persone provenienti dai contesti e dai gruppi più disparati, arrivando a comprendere sindacati di base, gruppi del cattolicesimo del dissenso, comunisti, anarchici, antagonisti, ambientalisti, movimenti femministi, scout e molto altro. In vista del forum di Napoli, il movimento di protesta si organizzò intorno a tre nuclei fondamentali: l’area dell’autonomia (alla cui guida vi erano il Laboratorio Occupato Ska e Officina 99, due dei principali centri sociali autogestiti di Napoli), l’area istituzionale (capitanata da Rifondazione Comunista, all’epoca in Parlamento con 35 deputati e 10 senatori, e dalla Federazione dei Verdi) e l’area terzomondista. Quest’ultima vedeva al suo interno la Rete Lilliput, nata nel 1999 con l’obiettivo di coordinare tutte le realtà locali che cercavano di combattere le disuguaglianze nel mondo attraverso la non violenza; inoltre, vi erano la Cooperativa ‘E Pappeci, i Missionari Comboniani del Cuore di Gesù e altre associazioni non governative. Oltre a queste tre aree principali, vi erano anche numerosi Cobas, all’epoca ancora molto forti e presenti sul territorio, anarchici e molti altri gruppi.
La mattina di sabato 17 marzo, un corteo di trentamila persone partì da piazza Garibaldi con l’obiettivo di raggiungere piazza del Plebiscito, nel cuore della zona rossa (ovvero l’area militarizzata in cui si stava svolgendo il Global Forum). Quando i manifestanti entrarono in piazza Municipio, la polizia chiuse la piazza, operando un accerchiamento da ogni lato che non permettesse la fuga. Sotto la regia del questore Izzo, migliaia di agenti caricarono i manifestanti da ogni lato, manganellando indiscriminatamente tutti, compresi giovanissimi studenti. In seguito a questa violenta carica ci furono moltissimi arresti ed i manifestanti vennero trasferiti alla caserma Raniero; qui avvennero torture, umiliazioni, pestaggi e anche violenze sessuali. Nei giorni successivi alle violenze di piazza e della caserma Raniero, il Laboratorio occupato Ska raccolse tantissime testimonianze dei manifestanti e dei ragazzi che avevano subito aggressioni e abusi e le pubblicò nel Libro Bianco, che fece immediatamente scalpore.
La magistratura, di fronte a tutte queste testimonianze, iniziò un’indagine su quanto era accaduto. Il 26 aprile 2002 i carabinieri arrestarono due funzionari della questura di Napoli, Carlo Solimene (indagato anche per i fatti della Diaz) e Fabio Ciccimarra, e sei poliziotti della Squadra mobile della Questura di Napoli; nella questura di via Medina ci fu una rivolta di oltre cento agenti di polizia, che provarono ad impedire l’arresto dei colleghi formando una catena umana. Alcune delle principali cariche del governo espressero immediatamente il loro supporto alle forze dell’ordine. Il vice-presidente del Consiglio Fini disse che «se i provvedimenti decisi dalla magistratura non avessero il necessario riscontro, saremmo in presenza di un atto gravissimo per le conseguenze che avrebbe sul morale delle forze dell’ordine», mentre il ministro dell’Interno Claudio Scajola affermò che «nel doveroso rispetto per il lavoro della magistratura si attende di conoscere le ragioni poste a fondamento di un provvedimento così grave», esprimendo «sentimenti di vicinanza alla polizia napoletana».
Nei giorni successivi gli indagati salirono a 100, con le accuse di concorso in sequestro di persona, abuso di ufficio, violenza privata, lesioni personali, lesioni aggravate, falso ideologico e violenza sessuale. Gli otto agenti arrestati vennero rilasciati, ma il 14 giugno 2003, alla fine delle indagini preliminari, la Procura di Napoli chiese il rinvio a giudizio per 31 poliziotti. Il processo iniziò il 13 aprile 2005, ma si protrasse per quasi cinque anni e la maggior parte delle accuse caddero in prescrizione. Il 22 gennaio 2010, dieci poliziotti (tra cui Ciccimarra e Solimene) vennero ritenuti colpevoli in primo grado e condannati a pene che variavano dai due anni ai due anni e otto mesi. Il secondo grado di giudizio protrasse il processo fino al 9 ottobre 2014, quando venne emessa una seconda sentenza di colpevolezza ma senza alcun effetto, perché ormai tutti i reati erano caduti in prescrizione. Questo processo, durato nove anni e conclusosi tredici anni dopo i fatti di Napoli, è di fatto molto simile ai processi del G8 per tempi, modalità e sentenze.
Un altro fatto che accomuna strettamente i due eventi è che nessun poliziotto indagato per i fatti di Napoli ha subito sanzioni penali, amministrative o disciplinari. Ciccimarra e Solimene, che nel 2001 erano semplici ispettori, non solo sono stati reintegrati nel corpo di polizia non appena terminata la detenzione preventiva ai domiciliari (ovvero qualche giorno dopo gli arresti del 2002), ma hanno proseguito senza difficoltà la loro carriera, e Ciccimarra ha addirittura ricoperto la carica di vice-questore a Latina. Va anche detto che il dispiegamento di forze per il 17 marzo 2001 non coinvolse la Digos di Napoli, ma vennero coinvolti reparti di polizia e carabinieri da tutta Italia, guidati dalla Squadra mobile di Napoli; la stessa meccanica fu adottata anche per il G8. Alla luce di tutto ciò, si può affermare che la gestione della piazza fu una prova generale del G8 di Genova, e che la modalità con cui le forze dell’ordine che avevano perpetrato gli abusi vennero sistematicamente protette e tutelate è del tutto assimilabile.
Manca però un ultimo dettaglio: a marzo, durante gli eventi di Napoli, era in carica il governo Amato II, di centrosinistra, mentre a luglio, durante gli eventi del G8, si era già insediato il governo Berlusconi II. Si può dunque affermare che la repressione del movimento No Global sia stato un fatto bipartisan, con una linea d’azione deliberatamente condivisa da un’intera classe politica per stroncare sul nascere un movimento che metteva in seria discussione lo status quo.